PUBBLICAZIONI DELLA FONDAZIONE
Anna Maria
Feder: la vita come servizio.
NELL'ENIGMA DELLA LUCE E DELL'OMBRA - LUIGI PIANCA, antologia di
poesie.
I 52 CANTI SCOUT DI FRANCESCO PIAZZA - Spartiti e testi.
SE VIVERE É
UN CAMMINARE LEGGERO - Poesie inedite di Francesco Piazza
CATALOGO DELLA MOSTRA AL MUSEO L. BAILO DI TREVISO:
FRANCESCO PIAZZA
SEGNO E COLORE
I CANTI DI FRANCESCO PIAZZA
ALBERI ANIME
MENDICAVAMO CANTI DI
USIGNOLI
IL VENTO E LA ROCCIA
CUSSI' I SE
CIAMAVA
PUBBLICAZIONI PROMOSSE
IL GENOCIDIO ARMENO
DALLE CAUSE DI IERI ALLE CONSEGUENZE DI
OGGI -
di Sandra Fabbro Canzian
Anna
Maria Feder: la vita come servizio.
Il libro racconta la significativa
esperienza di Anna Maria quale educatrice nello scautismo femminile
e si articola in due parti.
Nella prima parte è raccontata la sua
vita, dalla data in cui fondò, giovanissima, il Guidismo nella
Treviso dell’immediato dopoguerra, all’ impegno di insegnante e,
contemporaneamente, di Capo Scout fino all’incarico, di Commissaria
Nazionale della Branca Guide.
La narrazione è scritta con mirabile
sensibilità da Rosanna Moscatelli, anche lei insegnante e Capo
riparto Guide del Cantù 1°.
Nella seconda parte sono raccolti gli
scritti più importanti di Anna Maria relativamente alla sua
esperienza di Capo Guida. Testi che mantengono ancor oggi la stessa
freschezza di quando furono redatti.
SE VIVERE É
UN CAMMINARE LEGGERO
Poesie inedite di Francesco Piazza
Prefazione di Gian Domenico Mazzocato
L’ATTESA, IL RITMO E IL DONO
Io mi credetti
padrone della mia triste discesa e so che non volesti
lasciarmi al crollo di chi precipita. Francesco Piazza
L’arsura, in giro;
un martin pescatore volteggia s’una reliquia di vita. La buona
pioggia è di là dallo squallore, ma in attendere è gioia piú
compita. Eugenio Montale, Gloria del disteso mezzogiorno
È per te che scrivo,
anche se tu sola leggessi e dopo di te nessuno, anche se il
tempo dovesse cancellare parole e pensieri, anche se un giorno
di ciò si dovesse sorridere, è per te che scrivo e un solo
attimo della tua gioia di fanciulla amata io lo darei per la
vita. (Francesco Piazza, 19 giugno 1955)
Cosa aggiungono i versi che appaiono
in questa silloge a quanto conoscevamo del mondo poetico di
Francesco Piazza? Domanda che non si può in alcun caso eludere
quando si affronta il mare ignoto dell’inedito e del riemerso. E
anche: domanda connessa all’effettiva volontà dell’autore circa la
pubblicazione di materiale, in questo caso, molto cospicuo. Non
avevano, questi versi, sufficiente dignità? O non esprimevano
compiutamente poetica e mondo emozionale dell’autore stesso. Lo
stato dei manoscritti rivela in alcuni casi la volontà di rivedere,
correggere. In altri casi si ha compiutezza. La lettura rivela un
universo complesso, affidato ad un eloquio diffuso ed espresso con
linguaggio ora colto ora quotidiano. Che proprio in questa
dialettica tra aulico e quotidiano trova quella tensione che ci è
nota, ma non finisce mai di rivelarsi. Una fertilità, una
felicità del dire che giustifica ampiamente il recupero
dell’inedito. I versi che appartengono al decennio ‘55/’65 (e poi
continuano per tutti gli anni Settanta) circoscrivono una poetica
che potremmo chiamare dell’attesa e del ritmo. Nel senso che
esiste nel poeta la disponibilità al dono (a ricevere o a essere
egli stesso dono). Una disponibilità che si rinnova ciclicamente e
trova immagine nell’alternarsi di giorno e notte, nel rinnovarsi
delle stagioni. Esiste un luogo deputato all’attesa? Fisico o
mentale. Perché questo pare essere l’assillo di Piazza. Il suo
studio e tutta la sua casa, il suo stare in plein air, il tornare da
un’assenza (breve o lunga) e ricevere l’affetto di chi lo ama. Viene
in mente un sorriso di Jules Renard, l’autore di Pel di carota: se
si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe
la sala dell’attesa. Non è così semplice, non è pacifico.
L’attesa può essere dramma, sussulto, speranza e disperazione:
Quando il mio orizzonte è
deserto /e scompaiono i monti azzurri / io mi richiudo nell’ombra. /
Lascio le nubi salire / e scomparire i raggi del sole / che da esse
gemendo sfuggono / per ritornare come lame di spade. L’attesa
si colloca nel cerchio di un orizzonte che si spopola. Un nulla, un
deserto. Condensa in respiro breve i monti azzurri, le nubi che
salgono. Poi i raggi solari nel gemito del tramonto e il loro
riaffiorare, come spade affilate. È la forza immaginifica della
poesia di Piazza. Gorgo di energia coinvolgente. Chiama (e qui
esiste contiguità assoluta con la pittura e l’incisione) il
silenzio, in una rarefazione di sentimenti ed emozioni. Perché il
Silenzio si fa nume e divinità e svela i palpiti più segreti e
remoti. I sussurri vitali.
Perché credo di udire / lo smunto ritorno dell’eco / se per nessuno
io manco. / E di nessuno io saluto / pianti di dipartita? / Chi mi
ha lasciato o di quale / mano sull’uscio attendo / il premere,
certo, al ritorno? / L’ombra che mi accompagna / è di sentieri in
sole, / e non la posso stringere / come donna tremante. L’eco
che si riduce a smunto ritorno innesca la relazione (e il confronto)
tra presenza e assenza, tra ombra e sentieri solari, tra carezza e
tremito di donna. C’è una sensualità (splendidamente barocca nei
modi) che è dell’anima e del corpo, tra separazione e contatto
fisico affidato alle mani (né è dato sapere a quale mano tocchi in
sorte il premere). Circola qui, dilatato e invasivo, un senso
alto del mistero. Che è il procedere stesso dei passi sul cammino
dell’umano esistere. Un avanzare che schiude e implica relazioni
e interrogativi. Una ricchezza, comunque si consideri. La vita è un
debito che si contrae e per il quale bisogna avere un grazie sempre
pronto e disponibile ad essere pronunciato:
Grazie per tutto ciò, che,
impossibile, / è balenato come scoppio di luce / alla tua magica
mano / e per le ombre tenere, tese / al passo tuo docile e piano. /
Grazie per quelle dita leggere / che sogni e speranze tessevano / e
per quei tuoi sorrisi / che sfioravano cose e pensieri.
Ringraziare per i debiti che si contraggono e si portano addosso
come una sorta di zaino da svuotare / riempire di continuo: un
paradosso a ben vedere. Non è paradosso l’impossibile che diventa
possibile in uno scoppio di luce? E non è paradosso l’appuntito
ossimoro che restituisce equilibrio all’anima?
…la savia pazzia lavora / per
livellarmi l’anima. Stare a livello, sentire il mondo come
qualcosa di liscio, senza scalini:
Da questa riva che guarda /
nel liscio mondo dell’acqua… Da questa riva. La savia pazzia
implica anche la scelta di un preciso punto di vista.
E meglio sia che la strada /
io la percorra di lato, / e a passi senza rumore / sui ciuffi
d’erba, io vada / come se scalzo e il vento / non vi vedrà
giungendo. / Io mai potrò nella sera / usci sospingere ansando / per
la soave attesa. Ecco, ancora l’attesa. Soave? In realtà
tende agguati o almeno sforna una sorpresa dietro l’altra. Affiorano
i sogni, i miraggi, le intuizioni. Una serie di messaggi (come dire?
sottocoscienza) che sono la verità “altra”, quella che allude
(conduce?) al metafisico, all’ultraterreno, al numinoso. Insomma
la verità che davvero conta e pesa.
Con marchi roventi in mano /
ho vegliati nel sonno stanotte / in anelanti agguati attesi / le
ombre dei miei pensieri. / Essi sgusciavano, corsa / di ansimanti
vitelli in fuga / e straripavano, ombre / di assedianti pensieri. /
Se col pugno proteso / in fronte li avessi segnati / all’alba li
avrei rivisti / ed additati ridendo. Questo è il problema
vero. Anche se evanescenti, anche se sfuggenti, fantasmi e miraggi
sono indizio di una realtà autentica. Serve, in qualche modo,
nominarli, catalogarli, inventariarli. Perché qui abita la risposta
alle domande dell’umano esistere. Qui è la musica totalizzante (e
didattica, magistrale, irrinunciabile) dell’universo:
hanno cantato le fibre / più
silenziose e quiete / ed ho sentito immobile / la vetta sotto i miei
piedi. Altrove: Lo
spazio che canta al mio fianco. / Ho sempre le orecchie tese / come
reti di ragno. Le fibre silenziose e cantanti, ancora un
paradosso / ossimoro. Le fibre ultime, le più riposte, la canzone
più dimenticata, quella che nessuno suona mai. Lì, nel mistero,
lui avverte la vibrazione della vetta, sotto i suoi piedi.
Affascinante. E profondamente vero. I miraggi. Ne parla con toni
struggenti: E quando gli occhi
indugiano / in trasparenze di pace / o in me guardano forme / di
fantasiosi miraggi, / cosa più dolce di attendere / il battito delle
sue ciglia / e il guizzo di dolce abbandono / attento prendere e
farne / ricordo di debolezza. L’attesa di un battito di
ciglia, un guizzo di eternità. Le trasparenze di pace si
accompagnano all’anima fatta di vetro, di cui si dirà tra poco. A
far funzionare questo metronomo che conta le oscillazioni dell’anima
(a farlo funzionare tecnicamente, voglio dire, nella precisione
della parola che si fa inchiostro e scrittura) è la ricerca
instancabile dell’interlocutore. Un “tu” dilatato, immenso,
(onni)inclusivo: Sei l’eco del
monte, feroce / ripetuta dal nudo sperone / nell’occhio della
coturnice. / Sei l’ansa del fiume, brillante / come squame di pesce
d’argento, / fremente di lunga ricerca. / Sei l’impossibile acqua /
ch’io berrei dal ghiacciaio azzurro / se solo vi potessi giungere.
Piazza disegna con vigore il profilo di questo “tu”, non si
limita a evocarlo. Anima
fatta di vetro, / filata come seta d’oro, / lama sottile d’argento /
nel buio dell’abbandono, / occhio spaurito, battuto / dall’ombra di
mobili ciglia, / arco di cielo sereno, / striscia di mare immenso, /
e completezza di amore, / resta ad incidere segni / di beatitudine
amara, / e più che puoi vola / come assetata di pianto. Un
identikit preciso che ruota ancora attorno ad un ossimoro, vero e
proprio stilema, come appare a questo punto evidente, della poesia
di Piazza (beatitudine amara, il dolceamaro che la classicità, da
Saffo in poi, riferisce spesso alle pene d’amore). Infatti, a
dettare le regole di questo straniante oscillare tra opposti, è pur
sempre la sua carne d’uomo. So
che dovrò cercare / tronchi abbattuti o sentieri / quasi ignorati e
la notte / umida mano di amica / mi chiuderà, nel bosco, / gli occhi
tesi a vedere. / Come di morti padroni, / o lepre selvaggia e sola /
è chi mi vive dentro / alla mia carne d’uomo. Che è uno
straordinario (praticamente completo) catalogo degli “oggetti” della
poetica di Francesco. La ricerca della via (preferibilmente
sentieri), il bisogno di punti di riferimento, la notte come
crogiolo di ogni emozione, la similitudine tratta dal mondo degli
animali (la lepre, in questo caso, come sempre selvaggia e immersa
nella solitudine), specchio della vita interiore. E poi appunto,
folgorante, la carne d’uomo. Fragile e, proprio in virtù della
sua fragilità, un tutto. Va da sé. Ovunque incombe un poderoso
senso del tempo. Che ha pause, sospensioni, fughe, enigmi. Ma è
anche duro, vivo, presente. L’hic et nunc mediato dalla parola.
La tua parola è tenera / ed è
neve e pura / come solo è nel sogno. / Vieni prima che il tempo / ti
scolorisca le labbra / e riprenda l’aria i capelli / che ora vicini
mi appaiono. E altrove:
Ricordo ancora il colore / che aveva quel giorno la terra, / sento
venire ancora / il breve passo del tempo. / L’autunno aveva veli /
di trasparenti annunci / e come carne celata e vicina / il cielo di
essi ammantava. Un po’ più in là:
sarà nostro conforto / il
ritornare del tempo. Come si diceva: la ciclicità, l’eterno
ritornare del tempo su se stesso. La clessidra continuamente
capovolta, l’identica sabbia per ogni ora. In filigrana si staglia
la possente, enigmatica immagine dell’orologio assorto:
Ecco che sale la notte, / ed
il silenzio scivola / per tutta la casa, attenta / all’orologio
assorto. Anche se qualche paura offusca, crea il buio.
Nascono insidie: Non posso,
grido, non posso / scrivere la tua anima / con i colori di spazi /
tagliati dalla ragione. La cesura tra la parola e il segno
grafico (o la pennellata). Non può bastare la ragione a dettare.
In quel giro di mesi scriverà anche:
Mi lascio prendere dalle
stagioni / ed ogni anno mi piace / meravigliarmi, / dell’estate
improvvisa. Lascarsi afferrare (attraversare, anzi) dallo
stupore. Questione di pause e di riprese:
Tutti tornano a vivere / come
una pausa del sonno. / Avevo le stesse parole / di giorni lontani e
gli occhi / uguale pace trovavano / nei gialli cespi di primule.
Dunque, come si diceva, anche una questione di ritmo. Dentro
al quale irrompono (non si saprebbe dire se con ironia o sulla
spinta di una inguaribile melanconia, forse entrambe) i versi
scritti nel 1958 fra Treviso e Castelfranco. Piazza lavora alle
Grafiche Trevisan, impegnate in quei primi mesi dell’anno nella
stampa delle schede elettorali per le votazioni politiche (si
sarebbero svolte il 25 maggio). Esplodono
I canti dello stabilimento,
sorta di minisilloge legata all’evento.
Tutti che contano (seicento donne!). Rinchiusi,
prigionieri quasi. Piazza fa passare le otto ore contrattuali. Poi:
Allora ho detto che vado.
Il caporeparto (un camice
bianco. Niente volto, niente corpo, solo il camice) gli dà con
degnazione il consenso. Lui torna a casa, in treno. È il nostos,
il ritorno dell’eroe. Legge la vita stessa in quello sferragliare
sulle rotaie: mi vado a
contare / finestre di casolari / e bianche camice di uomini /
nell’ultimo ravizzone. / Speroni nei fianchi mi additano / la corsa,
nell’abile intreccio / di sentimenti e di cose. / Immenso esco, ho
le spalle / che reggono il greve corpo / del vento. Versi di
grande respiro. Autobiografici. La propria esperienza come immagine
universale della fatica di vivere. Sulle sue spalle, novello
Atlante, grava il peso del mondo. Il giorno dopo tornerà immergersi
nel bailamme delle donne disfatte dalla fatica e dal sudore. Non le
capisce proprio. Soprattutto non comprende il senso di quel correre
e di quell’affaticarsi collettivo cui nessuno (nemmeno lui) può
sottrarsi. Disincantato e cattivo.
È tanto difficile scendere /
ai loro cervelli d’insetto.
Questa silloge raccoglie anche versi scritti nella prima metà degli
anni Novanta. È un nucleo contrassegnato da un tono più dimesso,
meno discorsivo. Da una affiorante vena di stanchezza. Nel 1987 è
mancata l’adorata Anna Maria. Il tema della vecchiaia precoce
(quella che Svevo chiama senilità e che si raggruma attorno ad un
“io ho già vissuto” che si manifesta in ogni età, anche nella più
fiorente giovinezza e per le più diverse motivazioni) è peculiare
della poesia di Piazza.
Son forse già vecchio? si chiede rimirando il calicantus in
fiore:
…ho limiti alla mia mente / ed
immediati orizzonti. È il 1959, Checco non ha nemmeno
trent’anni. Quattro anni dopo (1964) ripensando al suo maestro
Giovanni Barbisan: …ragazzo, cercavo /
nell’odore acre degli acidi / e nel rumore del torchio /
scricchiolante allo sforzo / della calcografia / un sogno di vita
futura. / Poi la realtà, la fatica / di vivere in modo civile, / mi
hanno portato via… Nel declinare degli anni Ottanta, chi sta
vicino a Checco avverte un vuoto, un’assenza, una voglia di
ricongiungimento ad Anna Maria che circonda come un’aura l’artista.
Una polvere sottile ma pesante. Si deposita su quanto dipinge,
incide, scrive. Oggi risento
ancora / quel senso di finito, / di consumato, il nulla / tra un
respiro profondo / ed un respiro che tarda a venire e che non viene.
È il febbraio del 1993. Due mesi dopo ribadirà:
Mi sento sterile e stanco / come una squallida canna / ed ho la bocca
amara / e l’udito mi inganna. / La mia vita è più lenta, / tutto mi
si rallenta, / e la mia mano è vecchia / quando l’occhio mi cade /
sul pennello… Il poeta / squallida canna scopre il piccolo
mondo, la dimensione che lo rassicura:
ora mi posso assopire, / il
fuoco dura / e questo mio piccolo mondo / di cani, di legna, di luce
intorno / mi rassicura… E fuori? Lo turba la trasformazione.
Meglio, il degrado. Hanno
venduto la terra / dove ondeggiava il frumento, / dove l’orzo
mareggiava, / dove si ergeva il granturco / in paludamento di rosee,
/ eburnee pergamene. / La motosega morde / il mio cuore di legno, /
l’orda delle acacie declina, / precipita in una caligine / di
stecchi grigi. Perfino il suo giardino, amatissimo e ritratto
mille volte da mille angoli diversi, con ogni luce e in ogni
stagione dell’anno, gli si configura in chiave ostile. …credevo
il mio giardino / un paradiso / ma nella notte stride / la morte.
Urla di un topino / o di un passero disattento. / La civetta
sghignazza / e al mattino la guazza / veste gli steli dell’erba / di
camiciole d’argento. No, meglio il piccolo mondo. Superbo,
imperiale l’olocausto che si consuma nella stufa a legna che
diffonde calore nel suo studio.
Scoppietta l’acacia, / ronfa il castagno, / il faggio con lieve respiro,
brucia. / Tutto canta il suo creatore / anche nell’olocausto della
stufa. Potrebbe sembrare un ripiegamento, una rinuncia.
Certo in qualche misura lo è. Ma si tratta soprattutto di una
sublimazione del tema dell’attesa e del dono.
Signore, nel dono dell’attesa
/ di una completa risurrezione, / dono di giorni preziosi / di nubi
osannanti, di cieli pastosi, / di passeri terragni / ed arguti
fringuelli / di prati maturi e di cespugli lucenti, / di trepidi
alberelli / come piccoli angeli nel grande coro. Tanti anni
prima nella dedica di una lirica ad Anna aveva scritto:
per quando la malinconia si
traveste d’attesa. Il Grande Silenzio stava già tramando,
stava già tessendo agguati. E dunque questi versi sono altissimo
testamento spirituale.
Gian Domenico Mazzocato
Treviso, maggio 2017
La vocazione poetica di Francesco Piazza è
precoce. Nei primi anni Quaranta aveva pubblicato
Primi palpiti di poesia e
Primi voli. Affiderà a
compiute sillogi parte della sua produzione posteriore soltanto
molto tempo dopo: Alberi Anime
(1985) e Mendicavamo canti di
usignoli (1992). Tuttavia i lunghi silenzi sono solo apparenti.
I lavori per la pubblicazione della biografia della moglie di
Francesco, Anna Maria Feder (Gian Domenico Mazzocato,
Il vento e la roccia, Anna
Maria Feder Piazza, un’educatrice «ribelle», 2007) hanno
comportato un riordino (peraltro ancora parziale) dell’archivio di
casa Piazza. E sono tornati alla luce moltissimi versi inediti.
Un cospicuo nucleo copre il lungo periodo che va dalla metà degli
anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta. E un altro notevole
nucleo si colloca dopo la silloge uscita nel 1992 e arriva fino al
1995, anno in cui un ictus ha colpito l’artista. I manoscritti
hanno diversi gradi di compiutezza. Si passa dalla minuta, piena di
segni e di ripensamenti, alla “bellacopia” assolutamente rifinita.
Alcuni componimenti recano indicazione dell’anno (in qualche caso
anche del giorno e mese, talora perfino dell’ora) della stesura. Si
è riportata la data come indicata nei manoscritti.
CATALOGO DELLA MOSTRA AL MUSEO L. BAILO DI TREVISO:
FRANCESCO PIAZZA
SEGNO E COLORE
Per avere informazione completa sui contenuti del catalogo cliccare
qui.
I CANTI DI FRANCESCO PIAZZA
Il
libro tascabile, la cui copertina è riprodotta a fianco, è stato
edito nel 1997 e raccoglie tutti i canti scout composti da Francesco
Piazza scritti per i Campi estivi Scout, a decorrere dal 1953 e fino
al 1994, per singole Unità e Gruppi e canti di preghiera.
I disegni riprodotti sono tutti tratti da originali di Francesco
Piazza, sono schizzi veloci di momenti di vita all'aperto.
In una immagine, più sotto riportata, è riprodotta la firma di
Checco (Francesco) del proprio nome di caccia: "Cane Nero" con i
simboli della Croce e le lettere R S, Rover Scout, indicanti il suo
stato di Capo Unità.
Il libro è stato edito dalla ADLE di Padova ed è formato da 72
pagine. Riportiamo il testo originale di presentazione della
raccolta dei canti.
PRESENTAZIONE
Molti dicono che un difetto
dello scautismo è quello di non curarsi troppo della memoria
storica. Le mille imprese, attività, che hanno visto i capi produrre
le idee più geniali, mettere in gioco le energie migliori,
intellettive, manuali e creative rimangono poi nel cuore e
nell'esperienza
solo
cli chi le ha vissute in prima persona: i ragazzi.
II Capo, infatti, dopo un'attività ben riuscita è già all'opera per
realizzarne un'altra di migliore e tutto il materiale prodotto
finisce nel riempire scatole e scatole che … non appena avrà un po'
di tempo sistemerà per il proprio successore.
E un difetto o una caratteristica positiva?
B.P. nei suoi libri ci ha dato i principi fondamentali del metodo e
dello spirito scout e poi solo alcuni esempi pratici per farci
capire meglio cosa intendesse dire. Ha chiesto ai Capi di essere
capaci di vedere, come i ragazzi, l’avventura in una comune
pozzanghera d’acqua … ”Avete mai visto i bufali pascolare in
Kensington Gardens? E non vedete il fumo dell’accampamento dei Sioux
sotto l’ombra dell’Albert Memorial? lo li ho visti in tutti questi
anni”.
Siamo allora nella giusta mentalità: semplicità, spontaneità,
avventura da vivere assieme ai ragazzi, in quel momento, con loro e
solo per loro.
Però B.P. ci ricorda di rileggere i testi fondamentali, di ritornare
spesso alle fonti originarie.
Ecco che la pubblicazione dei Canti
di
Francesco Piazza, per noi tutti Checco, è un ritornare alla fonte. I
suoi canti di campo hanno accompagnato nella “meravigliosa
avventura” migliaia di ragazzi; il canto per il primo campo scuola
di Montegemoli e poi per l'Eurojam 94 hanno segnato il cammino
ventennale della nostra Associazione.
ln essi ritroviamo tutta l’umanità e la spiritualità di uno
scautismo vissuto con la gioia di sentirsi parte del creato e
l'entusiasmo che, tutto ciò, può essere trasmesso agli altri in un
rapporto di fraterna amicizia.
Questa pubblicazione vuole "fare memoria” di uno spirito
autenticamente scout dal quale trarre insegnamento e ispirazione per
stimolare tutti i Capi a sviluppare i loro “talenti” e tenere “in
quota lo scautismo.
Ringrazio quanti hanno contribuito alla realizzazione dell’opera:
Bruno Tessaris, Bruno Benvenuti ed il coro dei vecchi scouts di
Treviso per la parte musicale e l’incisione della cassetta dei
canti, Claudio Favaretto, Lino Bianchin, Stefano Longhi, Luciano
Furlanetto e Fiorella Boscarato per le testimonianze e la raccolta
del materiale e dei “ricordi”.
Naturalmente il grazie più grande va a Checco!
Nevio Saracco
torna
ALBERI ANIME
Il primo libro di poesie di
Francesco. La prima edizione è stata realizzata nei mesi di novembre
dicembre 1985 e la seconda nel settembre del 1992 a cura
dell'Associazione culturale Teorema per i tipi delle Grafiche
Crivellari di Treviso.
La presente terza edizione è stata
stampata dalla Tipografia Piave di Belluno nel mese di luglio 2012.
L'introduzione
è stata scritta da Ivo Prandin.
torna
MENDICAVAMO CANTI DI USIGNOLI
La dedica alla moglie Anna Maria del
libro anticipa il significato e il senso delle poesie. Il titolo
stesso è evocativo di tempi di particolare sensibilità affettuosa
dello stare insieme di due persone innamorate; Anna Maria era ormai
morta da cinque anni.
Sandro Zanotto intitolava la sua
presentazione al libro
Il canzoniere d'amore di Francesco Piazza e descrive la
raccolta di poesie come un viaggio "entro l'anime dell'autore" come
un continuo contrasto tra amore e morte.
torna
IL VENTO E
LA ROCCIA
Anna Maria Feder Piazza era una donna
del dubbio e aveva voce di profezia.
Attraversata dal dramma e protagonista di una straordinaria vicenda
umana, è stata educatrice fuori degli schemi tradizionali. La
volontà di farsi carico delle esigenze giovanili l'ha portata ad
offrire risposte valide a chi voleva uno scautismo e una scuola
liberi e coraggiosi.
Semplicemente ha imparato a scommettere sulla creatività degli
altri.
Contro tutto e contro tutti.
RECENSIONE DEL LIBRO DI GIAN DOMENICO MAZZOCATO A CURA DI MARIO
CUTULI - La Vita del Popolo 2 settembre 2007
A
scuola di Anna Maria, un'educatrice “ribelle”
“Quella donna deteneva un segreto grande.
Leggeva il misterioso respiro della storia, lo decifrava agli
altri... Sapeva creare un ambiente, delimitare uno spazio, cogliere
il senso del tempo...
Aveva un essere irrequieto, in ricerca e dunque simile a risorgiva
perenne, una creatura viva...”
Si direbbe che Anna Maria Feder Piazza, sia tutta qui, in questo
ritratto che di lei traccia Gian Domenico Mazzocato, in “Il vento e
la roccia” (Ed. Paoline).
Ed invece no.
Questa educatrice “ribelle”, questa donna ferma nelle proprie
convinzioni, tanto decisa nei suoi propositi quanto consapevolmente
irrequieta nella sua ricerca, che “ha assimilato”, che “ha colto
l'essenza”, che “sa dirsi a Dio usando parole di sintesi e di
rivelazione”, questa donna “abituata ad abitare con se stessa” e
“sempre disposta a un di un più”, sfugge ad una definitiva
connotazione, ad un cliché predeterminato.
Come il “vento” non può essere circoscritta e contenuta, perché,
proprio come il vento, scompagina e scuote, scompiglia e agita,
modella e leviga.
Come il vento si arresta solo se contrapposta alla “roccia”, anche
se non esaurisce la sua forza, in un continuo, inarrestabile e
complementare contrasto e completarsi.
Se Anna Maria è il vento, Francesco, l'uomo della sua vita, è la
roccia. Se lei è il dinamismo, lui la pacatezza. Se lei la fantasia,
lui la stabilità. Poli che si richiamano, perché ogni metà ha
bisogno dell'altra, non solo per avere un contrasto, ma anche per
comprendere se stessa, perché l'una è tale in forza dell'altra,
perché l'una, nella sua propria irripetibilità, vive dell'altra.
Come essere in ricerca, Anna Maria sa che la vita è accettazione
dell'evento, ma anche consapevolezza che “può esserci un abisso tra
l'ieri e l'oggi”, che “la vita è ricchezza, è vastità, è creazione
che si rinnova a ogni nuova vita, è quello che di più vario esiste”
e non può perciò risolversi in “un binario su cui far scorrere
ordinatamente un treno”.
Come “donna del dubbio” - solo chi dubita ricerca - Anna Maria non
ha verità da dispensare, perché per lei la verità si identifica con
la ricerca stessa. E questa è sempre anelito di qualcuno, di
qualcosa, di un senso sempre più pieno e mai totalmente conseguito
della vita.
Da questa ricerca, nasce in lei l'amore per lo scautismo e il
bisogno di trasmettere uno stile di vita improntato alla scoperta
della gioia di dare, al tentativo di decifrare il mistero che si
cela anche nelle piccole cose a partire dallo stesso ritmo naturale
con cui ogni cosa diviene ed è, semplice e profondo allo stesso
tempo, perché di esso il regista è Dio stesso.
E nasce anche l'esperienza della “stanzetta”, in quella casa di via
Biscari, nella prima periferia di Treviso, dove si parla, ci si
confronta, si ascolta, si condividono ideali, s'intrecciano
speranze.
Da questa ricerca nasce la consapevolezza che “riempire le ore della
nostra vita non significa vivere, perché “per vivere bisogna
ancorare la nostra esistenza a qualcosa” perché “sognare è vuoto e
troppo costoso per chi non è pazzo...”, ma soprattutto la
determinazione a non lasciarsi prendere in contropiede dalla vita,
come ama ripetere, quando nel 1981 scopre il male che pian piano la
consuma.
Da questa ricerca, infine, nasce quella pedagogia sperimentata con
le sue “guide”, ma anche con suoi alunni tra i banchi di scuola:
insegnare senza forzare e imporre, incarnando così la perfetta
figura di educatrice che fa della maieutica la strategia vincente
del suo incontro con gli altri perché ognuno, con la personale,
responsabile ricerca, diventi maestro di se stesso.
Non era facile leggere tra le pieghe della pur breve vita di Anna
Maria, di questo vento che sollecita la coscienza e stimola
l'intelligenza. Non era facile “comprendere” questa donna che vive
sapendo di vivere, capace di “interiorizzare il deserto”, di
“discendere dentro, per trovare punti di solidità della propria
identità”. (Mario Cutuli)
torna
CUSSI' I SE
CIAMAVA
Il libro, che si propone di mantenere
la memoria di vecchie tradizioni e culture contadine, è stato edito
nel mese di luglio del 2002 con la fattiva collaborazione della
Fondazione, la quale è stata beneficiaria dei proventi derivanti
dalla vendita.
Le illustrazioni contenute nelle pagine interne e la stessa
copertina sono opere del fratello Francesco.
DARIO DE BASTIANI EDITORE
torna
Questo libro fornisce un
sintetico quadro storico relativo alle pietre miliari che
caratterizzano l’identità del popolo armeno e si concentra
sulla tragedia del genocidio, che gli Armeni, cittadini
dell’Impero ottomano, hanno subito durante la Prima Guerra
Mondiale ad opera del governo dei Giovani Turchi.
Il genocidio, definito dal popolo
armeno il “Grande Male”, è una pagina di storia ancora
misconosciuta poiché per decenni su di essa è stato eretto,
in ambito internazionale, un possente muro di silenzio, nel
quale si sono aperte delle brecce solo in anni recenti.
Tutt’oggi permane il negazionismo
da parte dei governanti della Turchia, nonostante un’ampia
documentazione e testimonianze attestino la verità storica
del genocidio. La bibliografia indicata alla fine del testo,
può offrire al lettore spunti per ulteriori approfondimenti
sulle tematiche trattate. |
|
|
|
|
|