CATALOGO |
BREVE PRESENTAZIONE DEI CONTENUTI |
INTERVENTI - DIPINTI A OLIO - ACQUEFORTI |
COPERTINA CON ALETTE APERTE |
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COPERTINA A LIBRO CHIUSO | INFORMAZIONI SULL'EDIZIONE |
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INTERVENTI: Sindaco - Assessore Cultura - Direttore Musei - Rotary - Fondazione - Marco Goldin - Gian Domenico Mazzocato - Eugenio Manzato - Paolo Ruffilli
TESTIMONIANZE: Giovanni Barbisan - Luigi Pianca - Sandro Zanotto
Ci siamo! Il Nostro Museo Bailo, nel
decennale dalla scomparsa di Francesco “Checco” Piazza, ospita una
significativa esposizione di opere. Una raccolta scelta con cura e con
passione dagli amici della Fondazione Feder Piazza che hanno avuto la
felice intuizione di organizzare questa mostra.
Da Sindaco li ringrazio vivamente per
l’occasione che la nostra città avrà di riassaporare le opere di Checco
Piazza, e li ringrazio per avermi sollecitato a scrivere qualche
pensiero.
Francesco “Checco” Piazza è un
artista, un uomo, dalle mille sfaccettature, un geniale osservatore e un
“rispettoso” creatore. Un artista capace, con la pittura a olio, con
l’incisione, con il disegno, con la ceramica, di cogliere l’essenza, il
sentire di ciò che lo circondava e di trasformarlo in un’opera d’arte,
capace anch’essa poi di restituire, a chi la guarda, quell’essenza. La
natura, i paesaggi, gli alberi delle incisioni continuano a trasmetterci
quelle sensazioni, rispettosamente, cristallizzate in opere da Checco
Piazza.
Un piccolo pensiero finale ed un
ulteriore ringraziamento alla Fondazione Feder Piazza che con
l’organizzazione di questo decennale continua fedelmente quello stile di
vita aperto, e lievito di comunità, che era proprio di Francesco
“Checco” Piazza.
Godiamoci insieme questa bella
mostra, questa scelta variegata di opere... e riprendiamo il dialogo con
un artista che ha significato molto per la città.
Buona mostra a tutti!
Giovanni Manildo Sindaco di Treviso
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“Oltre la città” intitolava Sandro Zanotto
un suo scritto di qualche anno fa su Francesco “Checco” Piazza perché la
sua casa era ed è quasi in un bosco ai margini di Treviso.
In realtà oggi si è persa la percezione che quella sia una casa lontana;
oggi il quartiere in cui si trova è città a pieno titolo e la casa di
Checco Piazza è semmai una piccola oasi nel tessuto urbano. E ancor più
ora con la mostra delle sue opere al Museo Bailo, Francesco Piazza sta
in Treviso e ne abita il cuore.
Sono davvero orgoglioso dunque che il nostro Bailo ospiti tra settembre
e novembre 2017 una raccolta di opere di Francesco Piazza, incisioni e
olii, che hanno segnato nel profondo la cultura della nostra città.
Un ringraziamento particolare va rivolto alla Fondazione Feder Piazza:
questo omaggio a Francesco Piazza sarà per tutti una bella occasione per
riaprire l’armadio della memoria, per ritrovare su stampe e tele
paesaggi forse dimenticati o forse scomparsi ma sempre e comunque
trasformati dal segno dell’Artista.
Luciano
Franchin
Assessore ai Beni
Culturali e Ambientali ed al Sistema Museale
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Ripercorrendo attraverso le mostre la
carriera di Francesco Piazza si scopre quanto la sua presenza sulla
scena cittadina, pur precocemente avviata con la partecipazione alle
esposizioni provinciali d’arte contemporanea degli anni Cinquanta di
Palazzo dei Trecento, sia stata in fondo molto discreta (lui trevigiano
in medullis,
o forse proprio per questo?). Si deve poi risalire a quasi trent’anni fa
– l’artista ancora felicemente operoso – per una personale di ampio
respiro in sede pubblica che si fregi di catalogo, che rappresenta
oltretutto, nella sua sobrietà e raffinatezza, una delle ultime meditate
riflessioni in un diagramma critico non particolarmente movimentato (L’infinito
nel giardino,
Casa dei Carraresi, 1989).
Più che opportuna, se non risarcitoria, appare pertanto la retrospettiva
che a dieci anni dalla scomparsa si svolge al Museo Civico Luigi Bailo,
nelle sale che Piazza, antico amico dell’Istituto, ha frequentato e che
apprezzerebbe – ritengo – nella veste radicalmente rinnovata con cui
oggi lo riaccolgono. Ma l’occasione si carica di significato per lo
stesso Museo, non solo perché restituisce voce a un interprete di
valore, ma perché consente di anticipare una tappa del fecondo
itinerario degli incisori trevigiani che muove dalle esperienze di
Giovanni Barbisan e Lino Bianchi Barriviera, solo per contingenti
ragioni di spazio documentate in modo piuttosto limitato nell’attuale
allestimento (mentre non poteva non essere esaustivamente rappresentata
la grafica di Arturo Martini, protagonista del Museo). Nella prospettiva
di un consistente ampliamento della galleria permanente del Bailo giunge
quindi assai gradita la decisione della Fondazione Feder Piazza di
donare, al termine della mostra, alcune incisioni e un olio, che vengono
utilmente a integrare una dotazione non cospicua, costituita dai sette
brani contenuti nella cartella del 1980
Canti per un paesaggio
(in parte esposta in
Treviso la città rappresentata,
Santa Caterina, 2009) e dall’incisione
Ricordando Bepi Mazzotti,
tutti doni dello stesso autore.
Emilio Lippi
Direttore dei Musei Trevigiani
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Rotary Club Treviso, 1949 - 2017: il club per la città .....
Insomma, un club impegnato nel senso più ampio e significante per il
cittadino, ossia per sua/nostra stessa comunità e l’ambiente in cui
dobbiamo poter vivere in pienezza. Quindi, un club che non può
trascurare i valori di tradizione, storia, arte, cultura che della
comunità sono il più essenziale bene morale ed identitario.
Ecco perchè il Rotary Club Treviso sente come dovere proprio e
particolarmente onorevole contribuire a questa importante mostra di
Francesco Piazza, artista concittadino che ha esercitato la sua
magistrale sapienza nella pittura e nell’incisione, caricandole di
stupore per la natura e di una pura spiritualità, al servizio di un alto
messaggio pedagogico e civile, perciò assolutamente ‘umanistico’.
Esattamente gli stessi valori e missione ‘rotariani’, per l’uomo, il
cittadino, la città.
Rotary Club Treviso / Presidente Paolo Bornello e Andrea Bellieni
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Francesco Piazza non è più tra noi già da dieci anni.
È stato lui l’iniziatore e il promotore della Fondazione
Feder Piazza onlus
con lo scopo di onorare la memoria della moglie, Anna Maria Feder. Gli
amici avrebbero, dopo la sua morte, aggiunto il suo nome
nell’intitolazione per ricordarli assieme, come avevano vissuto in
comunanza di ideali.
La Fondazione si prefigge di onorare in modo degno e duraturo il
pensiero, l’insegnamento e l’opera di Anna Maria e di Francesco
perseguendo esclusivamente finalità di utilità sociale, prestando
particolare attenzione nei confronti di persone bisognose e promuovendo,
inoltre, attività di istruzione e formazione riferite principalmente
all’educazione dei giovani e alla divulgazione e al sostegno della
cultura e dell’arte.
Il decennale che ricorre in questo 2017 non poteva, quindi, essere
ignorato.
Da questa convinzione è nato il progetto di riproporre alla sua città,
Treviso, l’itinerario artistico percorso da Francesco Piazza con
maestria supportata da una base culturale ricca e approfondita.
Del progetto fa parte, oltre a questa mostra di dipinti e acqueforti,
l’edizione del volume di poesie inedite
Se vivere è un camminare leggero
edito dalla Biblioteca dei Leoni con testo introduttivo di Gian Domenico
Mazzocato.
I dipinti di Francesco Piazza sono stati, nel tempo, particolarmente
apprezzati e hanno trovato collocazione in molte collezioni pubbliche e
private. Come le acqueforti nelle quali fu inarrivabile maestro.
In questa esposizione viene presentata una significativa raccolta di
opere eseguite da Francesco dal 1954 al 1995, anno in cui la sua
attività si è bruscamente interrotta a causa di un devastante ictus. Per
dodici anni rimarrà pressoché immobile e privo dell’uso della parola,
sostenuto e assistito dai numerosi amici che frequentavano la sua casa.
La novità autentica, però, sono i testi poetici emersi dai suoi carnet e
dai suoi quaderni di appunti. La poetica di Piazza offre emozioni
assolute e le liriche, alimentate da una profonda spiritualità,
documentano ancora di più la ricchezza della personalità e l’acuta
sensibilità dell’autore.
Non si può dimenticare che Francesco Piazza fu anche figura di rilievo
nell’ambiente educativo trevigiano. Per parecchi anni ha esercitato il
ruolo e il servizio di capo scout e moltissimi sono i ragazzi, ora
divenuti adulti, che ricordano con stima e ammirazione la sua guida
sicura nell’aiutarli a superare il difficile periodo del dopoguerra e la
sua fervida fantasia nel saper proporre attività sempre nuove e
coinvolgenti.
Riunire ancora una volta attorno a Francesco le persone che lo hanno
conosciuto, che hanno avuto il privilegio di godere della sua amicizia o
che hanno apprezzato la sua geniale creatività, riprende uno degli scopi
che la Fondazione si è posta fin dai suoi inizi.
Chi ha frequentato Francesco Piazza e la sua casa sempre aperta a tutti,
ha potuto apprezzare in lui il dono di una amicizia rara. Un’amicizia
non limitata all’aspetto emozionale, affettivo, ma relazione dinamica e
propositiva verso la comprensione del mondo nelle sue infinite
dimensioni e verso la responsabilità che ognuno ha in confronto ad esso
e alle sue creature.
Gli occhi di Francesco,
scrive Gian Domenico Mazzocato,
hanno la potenza di chi si sente chiamato a resistere a un silente (ma
colpevole) processo di emarginazione della natura stessa. Dono quasi
divino, implicito alla vocazione creativa e misteriosamente intrecciato
al dialettico rapporto tra arte e natura. Il creato, nella poetica di
Piazza, è rivelazione. Profezia dell’infinita potenza che regge l’intero
universo ma custodisce nel proprio cuore anche la creatura smarrita e
affaticata.
La nostra aspettativa è che altri, avvicinando la sua intelligenza
creativa, scoprano la profondità del suo animo e avviino il percorso che
dalla conoscenza, dal rispetto e dall’amore per la natura, conduce a
riflettere attorno al primato dello spirito sulla materia nella
personale ricerca di sintonia con la trascendenza.
All’Amministrazione Comunale di Treviso, alla Direzione e al personale
dei Musei Trevigiani, al Rotary Club Treviso, che hanno creduto nel
nostro progetto e l’hanno anche materialmente sostenuto, presentiamo il
nostro grazie sincero.
Giovanni Tosello
Presidente della Fondazione Feder Piazza onlus |
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IL GLICINE E L’EDERA
Marco Goldin
Ho abitato per quasi dieci anni a Santa Bona, nella sua parte vecchia,
non lontano quindi da dove Francesco Piazza ha vissuto, immerso nella
natura, a pochi passi dalle strade affollate. Campagna ancora, così come
anche oggi in una sua parte rimane. Prati e orti, coltivazioni e piccoli
boschi, trascorrere appena di qualche acqua. Un paradiso, non perduto,
alle porte della città.
E allora si poteva immaginare il pittore uscire dalla sua casa e
percorrere i brevi sentieri, andare incontro alla luce nel primo mattino
e tornare dal lavoro nello spegnersi del giorno, prima che venisse sera.
Così, o restare seduto nello studio a guardare, oltre i vetri, la
meraviglia e l’incanto del creato, quel piccolo cosmo che era un mondo
fatto d’intimità e d’infinito. Quel francescanesimo della bellezza, quel
ridurre tutto all’essenza delle cose, quando poi fiorivano come in
corona chiostri di temporali e il giallo delle ortensie.
Si poteva immaginare il passaggio delle stagioni, da una all’altra e
nessuna meno amata delle altre. Perché tutto era un dono. Il prato quasi
klimtiano della piena primavera al suo culmine, gonfio di fiori e
apparizioni, oppure la forza tambureggiante dell’estate, con il dardo
del sole sulla natura. L’autunno che svuota e dilata le forme,
nell’intrico dei rami poco per volta spogli, dal rosso delle foglie alle
stoppie ormai bruciate.
E infine l’inverno, nella sua quintessenza di bianco e di neve, tracce
appena, dilavate premonizioni di una luce che s’accascia e si raccoglie.
Francesco Piazza ha dipinto cose così, liberandole infine dal peso della
realtà e lasciando che esse fossero soltanto tatuaggi nell’aria, spirito
costante che occupa gli spazi del paesaggio e tutti li sigilla.
Proveniente da quella tradizione del paesaggio veneto e trevigiano che
va da Ciardi a Barbisan, e che tanto si è ramificata in tutto il
territorio, Piazza vi ha però immesso una nota costante di canto rivolto
all’assoluto, all’immenso, che lui avrebbe forse scritto con la lettera
iniziale maiuscola, dato il suo profondo credere. Ma io preferisco
tenerla abbassata, per incontrare anche lo spirito di tutti coloro che
sentono la natura come il luogo della pura contemplazione dell’essere.
Comunque un luogo mistico e sacro, nel quale si esprime, attraverso la
pittura, il glorioso tendere dell’uomo al suggellare un patto con la
bellezza.
Ne è un esempio più che evidente il suggestivo, e fin quasi bonnardiano,
Glicine come un drappeggio,
dipinto nel 1993. Il glicine che si stende come in parata silenziosa,
appeso al verde degli alberi e al cielo che appena balugina, in un
angolo. È quell’equilibrio sottile, difficilissimo da tenere
controllato, tra la decorazione e l’essenza delle cose. Piazza mostra di
saper sorvegliare questo limite, questo confine da non oltrepassare, per
cui la natura si presenta e si consegna a noi.
E noi, e soprattutto il pittore, ci consegniamo, e lui si consegna, a
lei.
In un vero e proprio canto d’amore.
E questo muoversi su quella striscia sottile tra la voce e il silenzio,
si accentua nel lavoro dedicato all’acquaforte. Piazza è stato tra i
maggiori incisori di una terra, quella trevigiana, che ha visto presenze
straordinarie in questa disciplina, ovviamente da Barbisan e Bianchi
Barriviera fino a De Giorgis e Bonaldo, solo per fare qualche nome tra i
maggiori.
Tra tutti loro, egli ha coltivato il senso di una chiarità della luce
più insistita, dove il rapporto tra la luce stessa e l’ombra è stato da
subito il cardine irrinunciabile del racconto. Fossero i colli asolani
tra vigneti e ciliegi in fiore, fosse il greto del Piave con i suoi
ciottoli quasi giapponesi di neve, fosse una nebbia nel vigneto o la
primavera sorgente nel folto di un bosco o la straziata verticalità di
rami che si tendono nel cielo dell’inverno, fosse questo o molto altro,
Francesco Piazza ha dialogato con la natura, nell’incisione, in misura
ancor più essenziale. Sono stati soprassalti del vedere e ancor più del
vivere, perché vedere e vivere, nell’antica lingua sanscrita, hanno la
stessa radice. Vivere nascosto è stato per lui anche un vedere nascosto.
Vedere senza essere visto, da quel punto di osservazione che poco per
volta ha preso il largo, e il giardino a Santa Bona è diventato
l’infinito. |
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IL CILICIO E L’ESTASI
Gian Domenico Mazzocato
Sarà l’odore di incenso
che emana la lastra,
sarà il profondo dolore
che mi frequenta l’anima
…
Francesco Piazza
Tutta la natura è protesa verso un “tu”.
Tutti gli esseri viventi sono in comunione.
Gli uni con gli altri.
Ernesto Cardinal Martínez
Nel 1948 Francesco Piazza ha 17 anni.
Vive i giorni della ricerca e delle curiosità. Prova tecniche e
linguaggi. Dipinge a olio su tele di sacco. Sperimenta colori a tempera
su tavolette che trova qua e là. Le mette in forno ad invecchiare. Dice
che così fa
trasalire
i colori.
Abita in una soffitta, al centro di Asolo. La casa odora e puzza di
colle, di latte ammuffito, di chiara d’uovo e di bitume. L’aria si
impregna dell’acido nitrico delle prime, spericolate morsure. Piazza è
in dialogo serrato e libero con la materia del rappresentare, con i
supporti fisici della sua ricerca. Il colore, la tela.
E il rame, la cera, gli acidi delle incisioni.
L’acquaforte entra così nella sua vita. Sommessamente e trionfalmente.
Con, in prima istanza, quella abilità che solo gli acquafortisti
sviluppano e possiedono. È il primo segreto del loro mestiere: creare
artigianalmente le punte di acciaio utili a incidere la cera e
prepararla ad accogliere l’acido nitrico (l’aqua
fortis
degli alchimisti) fissandole su basette di legno. Piazza utilizzava
spesso, come supporto, anche pezzi di sughero.
A questi strumenti auto costruiti, in assenza di un termine proprio, si
dà il nome di bulino mutuandolo dalle tecniche di incisione diretta
della matrice di metallo: bulino, appunto, niello, puntasecca (e anche
la cosiddetta
maniera
nera in cui ai bulini si accompagnano raschietti e brunitoi).
Piazza è disordinato e smarrisce la sua prima lastra. Vi aveva inciso,
guardando il paesaggio dalla terrazza della soffitta,
un po’ di periferia con della siepe e un alberello spoglio e un solicino
invernale.
Ne conserva (e forse ne tira) un’unica copia, che il tempo ingiallisce
in fretta perché sta sul muro dentro una cornicetta senza vetro. Tanto
che anni dopo attribuirà il titolo di prima acquaforte, come dire,
ufficiale ad una incisione del 1949 (La
casa dei Romano, prima acquaforte della mia vita).
Nel 1954 vince il primo premio alla Mostra del Bianco e Nero di
Cittadella.
L’incisione (San
Nicolò,
1952) lascia intravedere in lontananza la basilica trevigiana. Il tempio
è sfumata e brumale filigrana. Il punto di osservazione di Piazza è tra
filiformi arbusti colti in primissimo piano. In mezzo, campi e vigneti.
Una sorta di preannuncio, di summa ideologica della sua arte, a ben
guardare.
Sono anni di esposizioni con l’approdo prestigioso alla Biennale di
Venezia. E sono soprattutto i tempi in cui matura il suo rapporto con
Anna Maria Feder.
Tuttavia l’entusiasmo per l’acquaforte, l’accensione per il segno inciso
sulla cera in attesa del morso dell’acido, albergano nell’animo di
Francesco per un periodo abbastanza breve. Fino al 1956, i suoi 25 anni.
In quel periodo prende il diploma di maturità artistica, indispensabile
per affrontare a viso aperto il futuro e severo suocero. L’anno
successivo trova lavoro presso le Grafiche Trevisan di Castelfranco.
Sono le stagioni del rimescolamento, della nuova costruzione di sé.
E l’acquaforte sparisce dalla sua vita.
Perché mi parve di non avere più la quiete, la serenità, i tempi lunghi
necessari per quel tanto di introspezione, di solitudine, di
tranquillità spirituale che ti fanno godere il dialogo con la lastra.
È la prima, fertile stagione di Piazza incisore. Smorzatasi nel
silenzio. Nonostante i rimbrotti della sua donna, Anna (Checo
mio, finisci la Madonna e cerca di stampare!,
gli scrive in una lettera).
L’ultima incisione di Francesco Piazza è attraversata da enigmi, a
iniziare dalla citazione biblica apposta a didascalia.
Ha scelto, Piazza, il salmo in cui Davide riflette sulla sorte del
giusto e dell’empio. Il silenzio davanti al dio è segno fisico (tattile,
si potrebbe dire) della speranza in lui. Perché, dice il salmista,
la giustizia del Signore darà secondo i meriti.
Piazza raccoglie, in didascalia, il monito al silenzio:
Sta’ in silenzio davanti al Signore.
Una vera e propria poetica del silenzio. Presagio, profezia, esorcismo.
Piazza guarda gli alberi del giardino e intuisce, in sintesi assoluta.
Un pioppo si staglia, superbo e solitario gigante. Un trionfo di foglie,
un girarsi nella direzione del vento. Ha un’anima sospesa tra terra e
spazi aperti. È una vita che racconta e confessa se stessa. Sorge in un
tripudio di natura selvatica, da magma vegetale, ma è, in modo
misterioso, appartato e isolato. Metafora di forte impatto evocativo.
L’artista è consapevole che il fato incombe.
Così suggeriscono i rami che si dipartono e cercano autonomia, nodi che
a un tratto si sciolgono e liberano energia creativa. Sono aurora e
promessa. E tuttavia il loro intrico, il loro sparire, il loro
ammantarsi di foglie sussurra che non tutto si può svelare. La vita può
essere giustamente e consapevolmente votata all’attesa.
Spetta ai destini individuali conferire un senso all’attesa, coniugarla
alla speranza.
E il silenzio che Piazza mutua dal salmista è la matrice profonda
dell’attesa.
L’evangelista Giovanni avverte che
in principio la parola era in Dio
e che dunque l’uomo viene da un grande silenzio. Per dirla assieme a
Paolo, quando scrive ai Romani, è l’attesa di
una rivelazione del mistero tenuto nascosto per secoli eterni.
L’artista, si è detto, ha un gioco ampio nella rivelazione. Una sorta di
mandato assoluto, testimoniato in modo struggente nell’incisione ultima.
Il silenzio è calato sul compito / ruolo di rivelazione.
La parte della lastra non lavorata da Piazza è quella superiore, il
cielo.
Come non scorgervi il segnale estremo dell’attesa? Cui corrispondono i
lunghi indugi sulla lastra dormiente.
Alla fine gli amici della Stamperia dell’Ariete hanno tirato
Alberi in giardino- agosto 1995.
Formidabile.
Solo l’inchiostratura e il torchio rivelano se una lastra regge davvero.
Tengono splendidamente gli alberi di Piazza. Rivelano, chiamano al
silenzio.
Ammoniscono: il cilicio della sofferenza, l’estasi della rivelazione.
Pensieri, parole, riflessioni
esplicitamente riferite a Francesco Piazza,
ad Anna Maria Feder Piazza e ad altri
(e segnalate dal corsivo) sono desunte da interventi dell’artista,
da articoli e da lettere.
Inoltre: da documenti dell’archivio della Fondazione Feder Piazza,
da testimonianze di amici e conoscenti,
da ricordi personali dell’autore del saggio. |
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GLI ESORDI TREVIGIANI Eugenio Manzato
... questa semplicità e di questo stupore che sono impastate le prime
composizioni di Piazza: naturalisticamente sorgivi i dipinti, rarefatte
nel segno le incisioni.
Se è pur vero che nel prosieguo della sua attività Francesco Piazza
sentirà l’esigenza di dar conclusione ai suoi studi irregolari
conseguendo, da privatista, il diploma di liceo artistico a Venezia, è
un fatto che i suoi esordi sono da autodidatta: il nonno materno, il
valente pittore toscano Enrico Fraschetti, morto quando il piccolo
Francesco aveva solo cinque anni, non può costituire nulla più che uno
stimolo.
È un periodo di forte evoluzione per Barbisan che, dopo aver
sperimentato tra il ’46 e il ’50 tecniche diverse tra impressionismo e
divisionismo, approda a una pittura sontuosamente naturalistica che ne
caratterizzerà la produzione nei decenni a venire.
Piazza subisce il fascino di questa visione, ma la registra con
prudenza: mentre infatti nei dipinti libera un naturalismo lirico non
scevro di ascendenze postimpressioniste, nelle incisioni si mantiene
entro un margine più costruttivo, evidenziando il disegno e il
tratteggio: guarda forse più alle incisioni “storiche” del maestro, a
quelle vedutine trevigiane degli anni trenta costruite per l’infittirsi
e il diradarsi di un tratteggio diagonale e incrociato che faceva a sua
volta riferimento a Bartolini e Morandi. Si registrano talora, con
Barbisan, anche affinità di soggetti; periferie cittadine che diventano
subito campagna, stradine sterrate segnate dall’ombra di alberi toccati
dalla luce radente del sole invernale, la visione lontana di Treviso a
chiudere un paesaggio di campi e case sparse.
La riapertura del Palazzo dei Trecento a mostre ufficiali dopo il
restauro del monumento è l’occasione per Piazza di presentare i suoi
lavori: partecipa infatti con assiduità a tutte le edizioni -1953, 1954,
1956, 1958 - delle mostre provinciali d’arte contemporanea promosse
dall’Associazione trevigiana della Stampa. Le notizie succinte che si
possono trarre dai cataloghi di queste rassegne, in cui sono presenti i
titoli delle opere senza alcuna altra precisazione e non sempre viene
specificata la presenza di incisioni, non consentono di capire se egli
esponga solo opere di pittura o anche di grafica: alla mostra del ’53
presenta sette opere -
Periferia, Campagna,
Campagna, Autunno, Rocca di Asolo, Cortile al sole, Pianura
- tra le quali io credo, in ragione dei titoli, si possano riconoscere
alcune acqueforti. Di quattro opere alla mostra del ’54, tutte col
generico titolo
Paesaggio,
due sono acqueforti (la tecnica è riferita tra parentesi). Quattro opere
vengono presentate anche alla mostra del ’56 -
Studi, Alberi d’estate, La siepe, Strada del vigneto
- tra le quali almeno La siepe credo si possa identificare con
l’acquaforte che presenterà l’anno successivo a Padova alla Biennale
d’Arte Triveneta. Infine nel ’58 presenta presumibilmente tre paesaggi a
olio:
Mattino d’estate, Grano Maturo, Paesaggio di fine estate.
È con queste mostre che, anche nella provinciale Treviso, si misurano le
novità e si contrappongono diversi modi di intendere l’arte: alla mostra
del ’58, accanto alla pittura tradizionale rappresentata da maestri
storici quali Springolo, Coletti, Juti Ravenna vi sono tendenze di
rinnovamento portate avanti da artisti quali Batacchi, Bianchi
Barriviera, Nesi, Giuseppe Basso, e si affaccia con prepotenza la
pittura informale con Gina Roma capofila di artisti più giovani quali
Gianni Ambrogio, Valentina Pianca, Ottorino Stefani e il giovanissimo
Plessi.
Barbisan con
Colli trevigiani
ed
Estate
sembra proclamare la sua fedeltà a una tradizione di paesaggismo che,
scavalcando la conquiste moderniste della prima metà del secolo, si rifà
al naturalismo di ascendenza ciardiana: del resto sono gli anni in cui
egli si vanta di essere “nato nei musei”.
Piazza solo apparentemente sembra seguirne le tracce: in realtà egli
trae ispirazione dal contatto diretto con la natura, ne è affascinato e
appagato in una visione liricamente francescana, ne traduce, insieme
all’impressione visiva, l’emozione vitale. È da qui che ripartirà nel
1974, dopo un’interruzione quasi ventennale, la sua attività incisoria:
che si presenta molto trasformata rispetto alla produzione giovanile.
Innanzitutto le composizioni diventeranno via via più dilatate nelle
misure, ma soprattutto ne sarà profondamente mutata la tecnica laddove
il disegno solido e dichiarato delle incisioni del periodo giovanile si
stempera in effetti pittorici attraverso segni minuti, di consistenza
quasi divisionista, capace di rendere atmosfericamente il paesaggio.
L’afflato lirico dei paesaggi dipinti si trasferisce infatti nel bianco
e nero dell’incisione e ne sublima la carica emotiva. È una visione
sacrale della natura, rafforzata spesso dalla citazione di un salmo,
lode francescana, “ringraziato si’ mi Signore cum tutte le tue
creature”.
Se non mancheranno vedute del Montello, dei colli asolani, e financo
paesaggi umbri e toscani, soggetto prediletto delle incisioni nel
ventennio tra il ’74 e il ’95 rimane pur sempre la campagna nei dintorni
immediati di Treviso, e, sempre più spesso nel prosieguo dell’attività,
angoli della stessa città: cosicché Piazza ne diventa uno dei maggiori
interpreti, e vero e proprio cantore dei suoi aspetti precipui. Troverà
estimatori e collezionisti che lo seguono con partecipe fedeltà,
coinvolgendo l’artista in eventi e ricorrenze fondamentali della vita
che verranno ricordate con una particolare incisione, inoltre enti e
associazioni commissionano incisioni per celebrare particolari momenti
istituzionali. Lo stesso Piazza amava segnare eventi o ricordare
personaggi attraverso un’incisione: un esempio tra i più riusciti e
toccanti è il ricordo di Bepi Mazzotti, con cui aveva condiviso per
breve tempo l’esperienza della Commissione Musei, attraverso la
rappresentazione di un angolo particolarmente suggestivo del Sile, in
prossimità della villa di Lughignano, già nido d’amore di una dama del
seguito di Caterina Cornaro, splendido edificio rinascimentale di cui
proprio Mazzotti aveva contribuito al ricupero e alla valorizzazione,
togliendola da un oblio secolare.
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TRADIZIONE E CURIOSITÀ
Giovanni Barbisan Le acqueforti di Piazza convincono per tante ragioni, che vanno dalla scelta dei temi, alla tecnica usata e all’atmosfera che vi si coglie. In particolare mi attirano i toni grigi diffusi nei paesaggi come la morbidità della luce, e la limpidezza dei cieli che il suo segno sa creare.
Da artista esperto in tutto, ma che non nasconde le sue preferenze,
Piazza interpreta in modi diversi specialmente soggetti di natura e
paesaggi, soffermandosi con spirito di curiosità su alberi e case, erbe
e foglie, muri e torri, rappresentati in momenti e stagioni particolari.
Egli si muove con la stessa sicurezza nei primi piani o nelle
prospettive, collegandosi in maniera originale con la nostra grande
tradizione. Nelle sue acqueforti si respira un’aria veneta che riporta
alle stampe del Seicento e del Settecento e alla pittura del Canaletto;
ma nello stesso tempo si coglie anche un gusto floreale, nel senso
migliore del termine, che di tanto in tanto mostra compiacimenti quasi
araldici.
Alle spalle di Francesco Piazza c’è però anche una tradizione familiare
che si può definire macchiaiolesca, tra veneta e toscana. In essa -
attraverso Guglielmo Ciardi - si sono formati alcuni dei migliori
artisti trevisani. Anche di questa tradizione, la grafica di Piazza
conserva in modo originale il valore, sapendo tuttavia restare fuori
dall’accademia e dal conformismo, anche da quello di moda.
Francesco, che quasi trent’anni fa ho visto iniziare, è un artista che
crede in ciò che fa e va avanti per la sua strada con gusto e passione
presentando risultati poetici maturi.
da
“Francesco Piazza - Acqueforti” |
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IL SOFFIO IMMORTALE DELLO SPIRITO
Luigi Pianca
Un artista, un credente, ma anche un uomo con tutti i pregi e i difetti
della propria umanità.
Nel settembre del 1995 si chiudeva per sempre la sua stagione artistica.
Solo negli occhi vivi e lucenti balenava a tratti l’alito vitale che
lentamente si spegnerà nel luglio del 2007. Con la mostra aperta a Vigo
di Cadore pochi giorni dopo la sua dipartita, si apriva la storia della
sua memoria che, in umiltà, cerchiamo di tracciare sotto l’ombra sempre
più lunga e la patina sempre più opaca del tempo, capace non solo di
coprire ma perfino di cancellare ogni segno e ogni traccia.
Resta il soffio immortale dello spirito, che travalica le età, per
confondersi negli abissi del cielo con il turbinio delle galassie in
quell’infinito sterminato del vortice divino nel quale ogni cosa annega
e ricomincia. Quel silence éternel des espaces infinis che terrorizzava
il genio immenso di Pascal, ora copre le ceneri del caro amico, il quale
continua a vivere nella memoria di quanti lo hanno avvicinato. Ricordo
breve, perché tutti noi che abbiamo condiviso i suoi giorni siamo oramai
cadenti e penosamente aggrappati all’esistenza con il filo sempre più
tenue dentro la nostra vecchiaia. Ma ci consola la certezza che, anche
quando l’ultimo soggetto che lo ha conosciuto sarà scomparso, l’arte che
Francesco ha espresso, effondendo la carica creativa dello spirito nelle
immagini e nelle parole, sarà capace di attraversare come una freccia il
futuro, colpendo e segnando il cuore e la mente di quanti calpesteranno
questo suolo fortunato.
dalla presentazione alla “Bottega
del Quadro”
Feltre (BL) 1984
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L’ARTE COME IMPEGNO
Sandro Zanotto
Francesco Piazza si rese conto nel momento chiave della sua attività
(che può essere posto nel 1974) che per i suoi maestri il paesaggio era
solo un pretesto per eseguire della buona pittura, nell’idea del
paesaggio come stato d’animo individuale dell’artista. Egli invece
voleva fare della sua arte un impegno nel mondo, collocarsi cioè
nell’ambito dell’uomo per contribuire a ricondurlo verso quello spazio
naturale a cui, fin dagli scritti biblici, l’uomo appare predestinato.
La contemplazione, la buona pittura, lo stato d’animo, erano mete che
gli erano divenute insufficienti, anche perché intervenivano su un
paesaggio che l’opera dell’uomo andava sempre più allontanando dalla
natura, nella folle corsa tecnologica che non può avere come ultimo
risultato altro che la disumanità dell’uomo artificiale, cioè l’inferno,
inteso come rifiuto del sacro.
I vecchi maestri inoltre, sotto la superficie del realismo, elaboravano
la pittura con i criteri della “composizione”: applicavano cioè
all’immagine del paesaggio un modulo estraneo che lo violentava, dandone
una visione distorta individualmente, pur con l’apparenza del realismo.
Le apparenze però non possono bastare a chi è impegnato nella ricerca di
un rigore mistico o a chi sia attento alle idee prima che alle immagini.
Ecco che allora Piazza, in uno scrupolo di realismo ascetico, sembra
rinunciare ai presupposti compositivi, cioè a quei criteri che in
accademia sono il metro per giudicare un quadro. Egli pare superare
l’idea stessa della bellezza dell’immagine, in una ricerca che lo
impegna sempre più sulla via della verità.
È un’idea sempre ricorrente nella storia dell’arte, che l’artista abbia
il compito profetico di cercare affannosamente una verità celata nelle
forme del mondo, da rivelare sceverandola tra mille miraggi ingannevoli.
da
“Francesco Piazza - L’infinito nel giardino” |
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LA DIMENSIONE DEL SILENZIO NELLE ACQUEFORTI
DI FRANCESCO PIAZZA
Paolo Ruffilli
Allievo di Giovanni Barbisan in giovanissima età, Francesco Piazza ha
imparato le complesse tecniche dell’acquaforte lasciandole poi
depositare per vent’anni. Intanto, ha continuato a disegnare e a
dipingere, in mezzo alle vicende e alle contingenze della vita,
affinando straordinariamente la sua capacità di tradurre in segno le
immagini della realtà. La lunga pausa dell’incisione e l’esercizio
quotidiano dell’annotazione e dello schizzo sono valsi, in lui, a
potenziare l’espressione e ad evitare la dispersione dell’ispirazione
nell’aggiustamento dell’esperienza.
Quando ha ripreso l’acquaforte, Piazza non ha cessato di dipingere;
anche se le due operazioni visive, per lui, si sono bloccate in due aree
distinte (d’altra parte complementari), restando l’una, la pittura,
concentrazione dell’ispirazione e diventando l’altra, l’acquaforte,
recupero e dilatazione nel tempo di quella stessa ispirazione. Come dire
che Piazza avverte nella sua avventura artistica, insieme, la necessità
di cogliere, fulminata dal vero, la realtà (il paesaggio, la natura
morta, la figura), e il bisogno di ripercorrerla, altra volta,
misurandola e distendendola nel tempo, nelle varie e lunghe fasi
dell’acquaforte.
I temi delle acqueforti di Francesco Piazza sono soprattutto: il
paesaggio, la natura morta e la figura, quantitativamente nell’ordine; e
mette conto considerare che le stesse tipologie, nelle medesime
ricorrenze, riguardano anche la sua pittura.
E, al di là delle diverse disposizioni d’animo e tecniche che pittura e
incisione dichiarano, nell’esperienza di Piazza i risultati
testimoniano di una perfetta unità di risultati. Di fatto,
nell’esercizio delle due discipline, Piazza ha sempre privilegiato,
consapevolmente o no, l’incisione. Non che abbia dedicato meno spazio o
meno amore alla pittura; ma la pittura, per una specie di istintivo
pudore, è rimasta ai margini. Come se, sul momento dell’ispirazione
gelosamente conservato e coperto preferibilmente agli sguardi estranei,
abbia acquistato rilevanza il momento dell’analisi, dello studio e
dell’accertamento. Ma la prospettiva, per chi guarda dall’esterno con
attenzione, è capovolta e l’apparente predilezione per l’incisione cela
quella che definirei una passione dei colori tanto coinvolgente da avere
spinto Piazza (non solo sensibile, ma intelligente) a farne verifica sul
bianco e nero.
Venendo nel dettaglio ai temi, il paesaggio, che è quello soprattutto
della campagna veneta, conosce i vasti spazi e i piccoli ritagli. I
primi sono aperti su orizzonti remoti e ritmati da piantagioni a vigneto
o da boschi di semina o da siepi e filari ripetuti. I secondi sono
individuati nell’intrico del sottobosco o della vegetazione di prato e
di fosso. Gli uni e gli altri sono colti in tutte e quattro le stagioni
dell’anno, dentro le diverse condizioni meteorologiche del sole, della
pioggia, della neve, e nelle diverse ore del giorno, dall’alba al
tramonto e fin quasi dentro le cortine del buio. Rara mente compare,
nel paesaggio, la costruzione; al limite dei campi o sulle pendici dei
colli o ai margini delle radure. È la vecchia casa colonica o la pieve o
il borgo di case. È assente ogni strumento e mezzo dell’uomo; e assente
è l’uomo stesso, di cui si avverte l’esistenza solo dallo stato
organizzato delle colture.
Bisogna subito dire che niente è più lontano dal naturalismo delle
incisioni di Piazza; e niente è più lontano dal paesaggismo da
quadretto ornamentale di maniera. Oltre l’apparente raffigurazione, a
campeggiare nelle acqueforti è il senso di quel misterioso contatto,
nelle cose, tra pieno e vuoto, movimento e arresto, vita e morte. C’è la
percezione di un silenzio carico, che è già trascrizione esistenziale.
Riflessione, tra incanto e sconcerto; ma sempre con una nota secca (che
è il rigore della trama, la fermezza di ciò che entra sulla scena). Ed è
un punto importante, questo della nota secca, perché è ciò che distingue
Piazza dalla tradizione a cui pure appartiene e ne fa una voce
assolutamente originale.
In fondo, ciò che lo lega alla tradizione veneta è meno di quanto invece
lo distacca. In Piazza, infatti, non ci sono unità organica, armonia
panteistica, appannamento sensuale. Niente di arcadico, ma neppure di
bucolico o di pastorale. A un occhio attento, non può sfuggire la
sfasatura che nell’incisione ogni volta si crea tra l’ordine naturale e
l’opera dell’uomo. Il gusto della natura, in Piazza, non mira e non
porta all’abbandono; cioè non scade mai, artisticamente, nell’idillico
di cui parla Guido Piovene per il temperamento veneto. E in questo,
appunto, Piazza è estraneo alle morbidezze e ai dati sentimentali della
tradizione pittorica veneta.
Il rapporto con le forze pur “buone” della natura, in Piazza è piuttosto
di specie drammatica, anche se la tensione è come bloccata e la
catastrofe non si compie mai sulla scena. È un senso della natura di
specie rara nella tipologia veneta e più vicino, in fondo, alla
disposizione misticheggiante umbra o a quella toscana. Un senso della
natura che parte da un giudizio crudo della realtà e sa godere tuttavia
della realtà fino in fondo, per quello che vale e conta, nella sua
dimensione creaturale di specie quasi francescana, nel breve e
misterioso destino terrestre dell’uomo.
Quanto alla natura morta, che è una ripresa in privato del contatto e
del dialogo con gli “oggetti” della campagna (l’erba secca, prima di
tutto, e i fiori, le foglie, i frutti…), consente a Piazza di far
rifluire in una stessa dimensione simbolica quelle tensioni, insieme,
allo spazio aperto e al frammento che caratterizzano l’approccio al
paesaggio. E ne scaturiscono “oggetti vegetali” che sono veri e propri
specchi metaforici ancora una volta di specie esistenziale, come certi
funghi, i gerani, le zucche o una mela cotogna, un grappolo d’uva, una
melagrana.
Quanto poi alla figura, che è generalmente il nudo femminile, ha nella
collocazione della lastra (con uno scarto rispetto alle esperienze
pittoriche, di nuovo rovesciando i colori nella prova del bianco e nero)
una sua proiezione complessa che si dispone, dal punto di vista
dell’esecuzione, dal gusto della somiglianza alla decifrazione
dell’anima. Con il risultato, ogni volta, di intensi ritratti interiori
nei diversi stati d’animo che accendono di più o di meno la persona,
rendendola più ombrosa o più luminosa: perplessità, meditazione,
partecipazione alla vita, soddisfazione, stupore, felicità. Oltre questi
temi non manca comunque, nel numero delle acqueforti di Piazza, un ciclo
vero e proprio delle “architetture”, incentrato cioè su un edificio che
non è più presenza marginale rispetto al paesaggio ma è il cuore stesso
dell’opera; con attenzione magari alla casa di via dei Biscari o alla
villa di famiglia della moglie o a un padiglione particolarmente caro
all’artista. È un ciclo, comunque, in cui Venezia detiene il posto
privilegiato, con i suoi muri sgretolati e i suoi ghirigori di marmi,
nelle strette calli o sugli aperti campielli. Ancora una volta a Piazza
interessano gli aspetti profondi, anche sulle pareti di un edificio che,
alla fine, gli interessa proprio perché ha una storia, un sapore di
vita, cioè un’anima propria che si è formata e sedimentata nel tempo.
Un’anima che il tratto insegue nei segni che il tempo appunto ha
lasciato, consumando negli anni le superfici intonacate, gli infissi e i
battenti, le tegole del tetto, spigoli, grate e cancelli.
La presenza di luci intermedie, nell’alternanza delle stagioni e dei
momenti del giorno, caratterizza gli spazi, aperti e chiusi, delle
acqueforti di Piazza. Il mondo che vi è rappresentato sembra colto
sempre un attimo prima della sua definitiva scomparsa, eppure senza
ansia e senza pena, con la suspense di un brivido del mistero che
sovrasta ma in un chiaroscuro di innocenza e di naturale purezza;
disegnato in un suo sorriso distratto che è il segno felice del suo
scorrere, nell’apparente immobilità e nel silenzio incombente. Perché
tutto inevitabilmente passa e, pur passando, tuttavia non cessa di
riflettere nella sua bellezza le risorse vincenti della vita.
La dimensione del silenzio è, come ho detto, la scena privilegiata in
cui si svela, oltre l’apparenza, il senso profondo delle cose. E a
disegnare questa dimensione del silenzio, nelle acqueforti di Piazza, è
la straordinaria perizia chiaroscurale: l’incisione tersa e trasparente,
i segni netti e rigorosi, i calcolati vuoti, la dosatura di passaggi,
lo sviluppo conseguente del tratto. È, in definitiva, dalla grande
misura tecnica dietro e dentro l’altrettanto grande umanità di Piazza
che “rinasce” nelle acqueforti quella realtà insieme presente e remota
su cui si è aperto il taglio su un misterioso aldilà; scoperta che
l’artista ha conquistato per sé attraverso il percorso di indagine
progressiva partito dalla sua iniziale intuizione. Il lavoro di
approfondimento ecco che riesce poco alla volta a consegnare all’artista
l’essenza segreta di quel paesaggio e di ogni suo dettaglio, dalle
pagine schizzate alla lastra scavata col bulino ai fogli inchiostrati. E
l’arte incisoria di Piazza, nitida come cristallo, è capace di
restituirci in una radiografia rivelatrice la vista autentica e abissale
degli oggetti nei loro particolari più minuti in quella chiave
esistenziale personalissima di cui abbiamo parlato. |
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EDITORE DI VILLORBA, NEL DECIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI FRANCESCO
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