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PUBBLICAZIONI

 

 

PUBBLICAZIONI DELLA FONDAZIONE

 

Anna Maria Feder: la vita come servizio.

 

NELL'ENIGMA DELLA LUCE E DELL'OMBRA - LUIGI PIANCA, antologia di poesie.

 I 52 CANTI SCOUT DI FRANCESCO PIAZZA - Spartiti e testi.

SE VIVERE É UN CAMMINARE LEGGERO - Poesie inedite di Francesco Piazza

CATALOGO DELLA MOSTRA AL MUSEO L. BAILO DI TREVISO: FRANCESCO PIAZZA SEGNO E COLORE

I CANTI DI FRANCESCO PIAZZA

ALBERI ANIME

MENDICAVAMO CANTI DI USIGNOLI

IL VENTO E LA ROCCIA

CUSSI' I SE CIAMAVA

PUBBLICAZIONI PROMOSSE

IL GENOCIDIO ARMENO DALLE CAUSE DI IERI ALLE CONSEGUENZE DI OGGI - di Sandra Fabbro Canzian

 


 

Anna Maria Feder: la vita come servizio.

Il libro racconta la significativa esperienza di Anna Maria quale educatrice nello scautismo femminile e si articola in due parti.
Nella prima parte è raccontata la sua vita, dalla data in cui fondò, giovanissima, il Guidismo nella Treviso dell’immediato dopoguerra, all’ impegno di insegnante e, contemporaneamente, di Capo Scout fino all’incarico, di Commissaria Nazionale della Branca Guide.
La narrazione è scritta con mirabile sensibilità da Rosanna Moscatelli, anche lei insegnante e Capo riparto Guide del Cantù 1°.
Nella seconda parte sono raccolti gli scritti più importanti di Anna Maria relativamente alla sua esperienza di Capo Guida. Testi che mantengono ancor oggi la stessa freschezza di quando furono redatti.

 

 

SE VIVERE É UN CAMMINARE LEGGERO

Poesie inedite di Francesco Piazza

Prefazione di Gian Domenico Mazzocato
se retro

    L’ATTESA, IL RITMO E IL DONO

 Io mi credetti padrone
della mia triste discesa
e so che non volesti lasciarmi
al crollo di chi precipita.
Francesco Piazza

L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s’una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia piú compita.
Eugenio Montale, Gloria del disteso mezzogiorno

È per te che scrivo, anche se tu sola leggessi
e dopo di te nessuno,
anche se il tempo dovesse cancellare parole e pensieri,
anche se un giorno di ciò si dovesse sorridere,
è per te che scrivo e un solo attimo della tua gioia
di fanciulla amata io lo darei per la vita.
(Francesco Piazza, 19 giugno 1955)

 Cosa aggiungono i versi che appaiono in questa silloge a quanto conoscevamo del mondo poetico di Francesco Piazza? Domanda che non si può in alcun caso eludere quando si affronta il mare ignoto dell’inedito e del riemerso.
E anche: domanda connessa all’effettiva volontà dell’autore circa la pubblicazione di materiale, in questo caso, molto cospicuo. Non avevano, questi versi, sufficiente dignità? O non esprimevano compiutamente poetica e mondo emozionale dell’autore stesso.
Lo stato dei manoscritti rivela in alcuni casi la volontà di rivedere, correggere. In altri casi si ha compiutezza.
La lettura rivela un universo complesso, affidato ad un eloquio diffuso ed espresso con linguaggio ora colto ora quotidiano. Che proprio in questa dialettica tra aulico e quotidiano trova quella tensione che ci è nota, ma non finisce mai di rivelarsi.
Una fertilità, una felicità del dire che giustifica ampiamente il recupero dell’inedito.
I versi che appartengono al decennio ‘55/’65 (e poi continuano per tutti gli anni Settanta) circoscrivono una poetica che potremmo chiamare dell’attesa e del ritmo.
Nel senso che esiste nel poeta la disponibilità al dono (a ricevere o a essere egli stesso dono). Una disponibilità che si rinnova ciclicamente e trova immagine nell’alternarsi di giorno e notte, nel rinnovarsi delle stagioni.
Esiste un luogo deputato all’attesa? Fisico o mentale. Perché questo pare essere l’assillo di Piazza. Il suo studio e tutta la sua casa, il suo stare in plein air, il tornare da un’assenza (breve o lunga) e ricevere l’affetto di chi lo ama. Viene in mente un sorriso di Jules Renard, l’autore di Pel di carota: se si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe la sala dell’attesa.
Non è così semplice, non è pacifico.
L’attesa può essere dramma, sussulto, speranza e disperazione: Quando il mio orizzonte è deserto /e scompaiono i monti azzurri / io mi richiudo nell’ombra. / Lascio le nubi salire / e scomparire i raggi del sole / che da esse gemendo sfuggono / per ritornare come lame di spade.
L’attesa si colloca nel cerchio di un orizzonte che si spopola. Un nulla, un deserto. Condensa in respiro breve i monti azzurri, le nubi che salgono. Poi i raggi solari nel gemito del tramonto e il loro riaffiorare, come spade affilate.
È la forza immaginifica della poesia di Piazza. Gorgo di energia coinvolgente.
Chiama (e qui esiste contiguità assoluta con la pittura e l’incisione) il silenzio, in una rarefazione di sentimenti ed emozioni. Perché il Silenzio si fa nume e divinità e svela i palpiti più segreti e remoti. I sussurri vitali. Perché credo di udire / lo smunto ritorno dell’eco / se per nessuno io manco. / E di nessuno io saluto / pianti di dipartita? / Chi mi ha lasciato o di quale / mano sull’uscio attendo / il premere, certo, al ritorno? / L’ombra che mi accompagna / è di sentieri in sole, / e non la posso stringere / come donna tremante.
L’eco che si riduce a smunto ritorno innesca la relazione (e il confronto) tra presenza e assenza, tra ombra e sentieri solari, tra carezza e tremito di donna. C’è una sensualità (splendidamente barocca nei modi) che è dell’anima e del corpo, tra separazione e contatto fisico affidato alle mani (né è dato sapere a quale mano tocchi in sorte il premere).
Circola qui, dilatato e invasivo, un senso alto del mistero. Che è il procedere stesso dei passi sul cammino dell’umano esistere.
Un avanzare che schiude e implica relazioni e interrogativi. Una ricchezza, comunque si consideri. La vita è un debito che si contrae e per il quale bisogna avere un grazie sempre pronto e disponibile ad essere pronunciato: Grazie per tutto ciò, che, impossibile, / è balenato come scoppio di luce / alla tua magica mano / e per le ombre tenere, tese / al passo tuo docile e piano. / Grazie per quelle dita leggere / che sogni e speranze tessevano / e per quei tuoi sorrisi / che sfioravano cose e pensieri.
Ringraziare per i debiti che si contraggono e si portano addosso come una sorta di zaino da svuotare / riempire di continuo: un paradosso a ben vedere. Non è paradosso l’impossibile che diventa possibile in uno scoppio di luce? E non è paradosso l’appuntito ossimoro che restituisce equilibrio all’anima? …la savia pazzia lavora / per livellarmi l’anima.
Stare a livello, sentire il mondo come qualcosa di liscio, senza scalini: Da questa riva che guarda / nel liscio mondo dell’acqua…
Da questa riva. La savia pazzia implica anche la scelta di un preciso punto di vista. E meglio sia che la strada / io la percorra di lato, / e a passi senza rumore / sui ciuffi d’erba, io vada / come se scalzo e il vento / non vi vedrà giungendo. / Io mai potrò nella sera / usci sospingere ansando / per la soave attesa.
Ecco, ancora l’attesa. Soave? In realtà tende agguati o almeno sforna una sorpresa dietro l’altra. Affiorano i sogni, i miraggi, le intuizioni. Una serie di messaggi (come dire? sottocoscienza) che sono la verità “altra”, quella che allude (conduce?) al metafisico, all’ultraterreno, al numinoso.
Insomma la verità che davvero conta e pesa.
Con marchi roventi in mano / ho vegliati nel sonno stanotte / in anelanti agguati attesi / le ombre dei miei pensieri. / Essi sgusciavano, corsa / di ansimanti vitelli in fuga / e straripavano, ombre / di assedianti pensieri. / Se col pugno proteso / in fronte li avessi segnati / all’alba li avrei rivisti / ed additati ridendo.
Questo è il problema vero. Anche se evanescenti, anche se sfuggenti, fantasmi e miraggi sono indizio di una realtà autentica. Serve, in qualche modo, nominarli, catalogarli, inventariarli. Perché qui abita la risposta alle domande dell’umano esistere. Qui è la musica totalizzante (e didattica, magistrale, irrinunciabile) dell’universo: hanno cantato le fibre / più silenziose e quiete / ed ho sentito immobile / la vetta sotto i miei piedi.
Altrove: Lo spazio che canta al mio fianco. / Ho sempre le orecchie tese / come reti di ragno.
Le fibre silenziose e cantanti, ancora un paradosso / ossimoro. Le fibre ultime, le più riposte, la canzone più dimenticata, quella che nessuno suona mai.
Lì, nel mistero, lui avverte la vibrazione della vetta, sotto i suoi piedi. Affascinante. E profondamente vero.
I miraggi. Ne parla con toni struggenti: E quando gli occhi indugiano / in trasparenze di pace / o in me guardano forme / di fantasiosi miraggi, / cosa più dolce di attendere / il battito delle sue ciglia / e il guizzo di dolce abbandono / attento prendere e farne / ricordo di debolezza.
L’attesa di un battito di ciglia, un guizzo di eternità. Le trasparenze di pace si accompagnano all’anima fatta di vetro, di cui si dirà tra poco.
A far funzionare questo metronomo che conta le oscillazioni dell’anima (a farlo funzionare tecnicamente, voglio dire, nella precisione della parola che si fa inchiostro e scrittura) è la ricerca instancabile dell’interlocutore. Un “tu” dilatato, immenso, (onni)inclusivo: Sei l’eco del monte, feroce / ripetuta dal nudo sperone / nell’occhio della coturnice. / Sei l’ansa del fiume, brillante / come squame di pesce d’argento, / fremente di lunga ricerca. / Sei l’impossibile acqua / ch’io berrei dal ghiacciaio azzurro / se solo vi potessi giungere.
Piazza disegna con vigore il profilo di questo “tu”, non si limita a evocarlo.
Anima fatta di vetro, / filata come seta d’oro, / lama sottile d’argento / nel buio dell’abbandono, / occhio spaurito, battuto / dall’ombra di mobili ciglia, / arco di cielo sereno, / striscia di mare immenso, / e completezza di amore, / resta ad incidere segni / di beatitudine amara, / e più che puoi vola / come assetata di pianto.
Un identikit preciso che ruota ancora attorno ad un ossimoro, vero e proprio stilema, come appare a questo punto evidente, della poesia di Piazza (beatitudine amara, il dolceamaro che la classicità, da Saffo in poi, riferisce spesso alle pene d’amore).
Infatti, a dettare le regole di questo straniante oscillare tra opposti, è pur sempre la sua carne d’uomo. So che dovrò cercare / tronchi abbattuti o sentieri / quasi ignorati e la notte / umida mano di amica / mi chiuderà, nel bosco, / gli occhi tesi a vedere. / Come di morti padroni, / o lepre selvaggia e sola / è chi mi vive dentro / alla mia carne d’uomo.
Che è uno straordinario (praticamente completo) catalogo degli “oggetti” della poetica di Francesco. La ricerca della via (preferibilmente sentieri), il bisogno di punti di riferimento, la notte come crogiolo di ogni emozione, la similitudine tratta dal mondo degli animali (la lepre, in questo caso, come sempre selvaggia e immersa nella solitudine), specchio della vita interiore. E poi appunto, folgorante, la carne d’uomo.
Fragile e, proprio in virtù della sua fragilità, un tutto.
Va da sé. Ovunque incombe un poderoso senso del tempo. Che ha pause, sospensioni, fughe, enigmi. Ma è anche duro, vivo, presente. L’hic et nunc mediato dalla parola. La tua parola è tenera / ed è neve e pura / come solo è nel sogno. / Vieni prima che il tempo / ti scolorisca le labbra / e riprenda l’aria i capelli / che ora vicini mi appaiono.
E altrove: Ricordo ancora il colore / che aveva quel giorno la terra, / sento venire ancora / il breve passo del tempo. / L’autunno aveva veli / di trasparenti annunci / e come carne celata e vicina / il cielo di essi ammantava.
Un po’ più in là: sarà nostro conforto / il ritornare del tempo.
Come si diceva: la ciclicità, l’eterno ritornare del tempo su se stesso. La clessidra continuamente capovolta, l’identica sabbia per ogni ora. In filigrana si staglia la possente, enigmatica immagine dell’orologio assorto: Ecco che sale la notte, / ed il silenzio scivola / per tutta la casa, attenta / all’orologio assorto.
Anche se qualche paura offusca, crea il buio. Nascono insidie: Non posso, grido, non posso / scrivere la tua anima / con i colori di spazi / tagliati dalla ragione. La cesura tra la parola e il segno grafico (o la pennellata). Non può bastare la ragione a dettare.
In quel giro di mesi scriverà anche: Mi lascio prendere dalle stagioni / ed ogni anno mi piace / meravigliarmi, / dell’estate improvvisa.
Lascarsi afferrare (attraversare, anzi) dallo stupore. Questione di pause e di riprese: Tutti tornano a vivere / come una pausa del sonno. / Avevo le stesse parole / di giorni lontani e gli occhi / uguale pace trovavano / nei gialli cespi di primule.
Dunque, come si diceva, anche una questione di ritmo.
Dentro al quale irrompono (non si saprebbe dire se con ironia o sulla spinta di una inguaribile melanconia, forse entrambe) i versi scritti nel 1958 fra Treviso e Castelfranco.
Piazza lavora alle Grafiche Trevisan, impegnate in quei primi mesi dell’anno nella stampa delle schede elettorali per le votazioni politiche (si sarebbero svolte il 25 maggio). Esplodono I canti dello stabilimento, sorta di minisilloge legata all’evento.

Tutti che contano (seicento donne!). Rinchiusi, prigionieri quasi. Piazza fa passare le otto ore contrattuali. Poi: Allora ho detto che vado. Il caporeparto (un camice bianco. Niente volto, niente corpo, solo il camice) gli dà con degnazione il consenso. Lui torna a casa, in treno.
È il nostos, il ritorno dell’eroe. Legge la vita stessa in quello sferragliare sulle rotaie: mi vado a contare / finestre di casolari / e bianche camice di uomini / nell’ultimo ravizzone. / Speroni nei fianchi mi additano / la corsa, nell’abile intreccio / di sentimenti e di cose. / Immenso esco, ho le spalle / che reggono il greve corpo / del vento.
Versi di grande respiro. Autobiografici. La propria esperienza come immagine universale della fatica di vivere.
Sulle sue spalle, novello Atlante, grava il peso del mondo. Il giorno dopo tornerà immergersi nel bailamme delle donne disfatte dalla fatica e dal sudore. Non le capisce proprio. Soprattutto non comprende il senso di quel correre e di quell’affaticarsi collettivo cui nessuno (nemmeno lui) può sottrarsi. Disincantato e cattivo. È tanto difficile scendere / ai loro cervelli d’insetto.

Questa silloge raccoglie anche versi scritti nella prima metà degli anni Novanta. È un nucleo contrassegnato da un tono più dimesso, meno discorsivo. Da una affiorante vena di stanchezza. Nel 1987 è mancata l’adorata Anna Maria.
Il tema della vecchiaia precoce (quella che Svevo chiama senilità e che si raggruma attorno ad un “io ho già vissuto” che si manifesta in ogni età, anche nella più fiorente giovinezza e per le più diverse motivazioni) è peculiare della poesia di Piazza.
Son forse già vecchio? si chiede rimirando il calicantus in fiore:  …ho limiti alla mia mente / ed immediati orizzonti. È il 1959, Checco non ha nemmeno trent’anni.
Quattro anni dopo (1964) ripensando al suo maestro Giovanni Barbisan:
ragazzo, cercavo / nell’odore acre degli acidi / e nel rumore del torchio / scricchiolante allo sforzo / della calcografia / un sogno di vita futura. / Poi la realtà, la fatica / di vivere in modo civile, / mi hanno portato via
Nel declinare degli anni Ottanta, chi sta vicino a Checco avverte un vuoto, un’assenza, una voglia di ricongiungimento ad Anna Maria che circonda come un’aura l’artista.
Una polvere sottile ma pesante. Si deposita su quanto dipinge, incide, scrive. Oggi risento ancora / quel senso di finito, / di consumato, il nulla / tra un respiro profondo / ed un respiro che tarda a venire e che non viene.
È il febbraio del 1993. Due mesi dopo ribadirà: Mi sento sterile e stanco / come una squallida canna / ed ho la bocca amara / e l’udito mi inganna. / La mia vita è più lenta, / tutto mi si rallenta, / e la mia mano è vecchia / quando l’occhio mi cade / sul pennello…
Il poeta / squallida canna scopre il piccolo mondo, la dimensione che lo rassicura: ora mi posso assopire, / il fuoco dura / e questo mio piccolo mondo / di cani, di legna, di luce intorno / mi rassicura…
E fuori? Lo turba la trasformazione. Meglio, il degrado. Hanno venduto la terra / dove ondeggiava il frumento, / dove l’orzo mareggiava, / dove si ergeva il granturco / in paludamento di rosee, / eburnee pergamene. / La motosega morde / il mio cuore di legno, / l’orda delle acacie declina, / precipita in una caligine / di stecchi grigi.
Perfino il suo giardino, amatissimo e ritratto mille volte da mille angoli diversi, con ogni luce e in ogni stagione dell’anno, gli si configura in chiave ostile. …credevo il mio giardino / un paradiso / ma nella notte stride / la morte. Urla di un topino / o di un passero disattento. / La civetta sghignazza / e al mattino la guazza / veste gli steli dell’erba / di camiciole d’argento.
No, meglio il piccolo mondo. Superbo, imperiale l’olocausto che si consuma nella stufa a legna che diffonde calore nel suo studio. Scoppietta l’acacia, / ronfa il castagno, / il faggio con lieve respiro, brucia. / Tutto canta il suo creatore / anche nell’olocausto della stufa.
Potrebbe sembrare un ripiegamento, una rinuncia.
Certo in qualche misura lo è. Ma si tratta soprattutto di una sublimazione del tema dell’attesa e del dono. Signore, nel dono dell’attesa / di una completa risurrezione, / dono di giorni preziosi / di nubi osannanti, di cieli pastosi, / di passeri terragni / ed arguti fringuelli / di prati maturi e di cespugli lucenti, / di trepidi alberelli / come piccoli angeli nel grande coro.
Tanti anni prima nella dedica di una lirica ad Anna aveva scritto: per quando la malinconia si traveste d’attesa.
Il Grande Silenzio stava già tramando, stava già tessendo agguati.
E dunque questi versi sono altissimo testamento spirituale.

Gian Domenico Mazzocato
Treviso, maggio 2017

 La vocazione poetica di Francesco Piazza è precoce.
Nei primi anni Quaranta aveva pubblicato Primi palpiti di poesia e Primi voli. Affiderà a compiute sillogi parte della sua produzione posteriore soltanto molto tempo dopo: Alberi Anime (1985) e Mendicavamo canti di usignoli (1992). Tuttavia i lunghi silenzi sono solo apparenti.
I lavori per la pubblicazione della biografia della moglie di Francesco, Anna Maria Feder (Gian Domenico Mazzocato, Il vento e la roccia, Anna Maria Feder Piazza, un’educatrice «ribelle», 2007) hanno comportato un riordino (peraltro ancora parziale) dell’archivio di casa Piazza. E sono tornati alla luce moltissimi versi inediti.
Un cospicuo nucleo copre il lungo periodo che va dalla metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta. E un altro notevole nucleo si colloca dopo la silloge uscita nel 1992 e arriva fino al 1995, anno in cui un ictus ha colpito l’artista.
I manoscritti hanno diversi gradi di compiutezza. Si passa dalla minuta, piena di segni e di ripensamenti, alla “bellacopia” assolutamente rifinita.
Alcuni componimenti recano indicazione dell’anno (in qualche caso anche del giorno e mese, talora perfino dell’ora) della stesura. Si è riportata la data come indicata nei manoscritti.
 


CATALOGO DELLA MOSTRA AL MUSEO L. BAILO DI TREVISO:

FRANCESCO PIAZZA SEGNO E COLORE

Per avere informazione completa sui contenuti del catalogo cliccare qui.

 


 

I CANTI DI FRANCESCO PIAZZA

Il libro tascabile, la cui copertina è riprodotta a fianco, è stato edito nel 1997 e raccoglie tutti i canti scout composti da Francesco Piazza scritti per i Campi estivi Scout, a decorrere dal 1953 e fino al 1994, per singole Unità e Gruppi e canti di preghiera.

I disegni riprodotti sono tutti tratti da originali di Francesco Piazza, sono schizzi veloci di momenti di vita all'aperto.

In una immagine, più sotto riportata, è riprodotta la firma di Checco (Francesco) del proprio nome di caccia: "Cane Nero" con i simboli della Croce e le lettere R S, Rover Scout, indicanti il suo stato di Capo Unità.

Il libro è stato edito dalla ADLE di Padova ed è formato da 72 pagine.

Riportiamo il testo originale di presentazione della raccolta dei canti.

 

                                                                                                       PRESENTAZIONE

Molti dicono che un difetto dello scautismo è quello di non curarsi troppo della memoria storica. Le mille imprese, attività, che hanno visto i capi produrre le idee più geniali, mettere in gioco le energie migliori, intellettive, manuali e creative rimangono poi nel cuore e nell'esperienza solo cli chi le ha vissute in prima persona: i ragazzi.
II Capo, infatti, dopo un'attività ben riuscita è già all'opera per realizzarne un'altra di migliore e tutto il materiale prodotto finisce nel riempire scatole e scatole che … non appena avrà un po' di tempo sistemerà per il proprio successore.
E un difetto o una caratteristica positiva?
B.P. nei suoi libri ci ha dato i principi fondamentali del metodo e dello spirito scout e poi solo alcuni esempi pratici per farci capire meglio cosa intendesse dire. Ha chiesto ai Capi di essere capaci di vedere, come i ragazzi, l’avventura in una comune pozzanghera d’acqua … ”Avete mai visto i bufali pascolare in Kensington Gardens? E non vedete il fumo dell’accampamento dei Sioux sotto l’ombra dell’Albert Memorial? lo li ho visti in tutti questi anni”.
Siamo allora nella giusta mentalità: semplicità, spontaneità, avventura da vivere assieme ai ragazzi, in quel momento, con loro e solo per loro.
Però B.P. ci ricorda di rileggere i testi fondamentali, di ritornare spesso alle fonti originarie.
Ecco che la pubblicazione dei Canti di Francesco Piazza, per noi tutti Checco, è un ritornare alla fonte. I suoi canti di campo hanno accompagnato nella “meravigliosa avventura” migliaia di ragazzi; il canto per il primo campo scuola di Montegemoli e poi per l'Eurojam 94 hanno segnato il cammino ventennale della nostra Associazione.
ln essi ritroviamo tutta l’umanità e la spiritualità di uno scautismo vissuto con la gioia di sentirsi parte del creato e l'entusiasmo che, tutto ciò, può essere trasmesso agli altri in un rapporto di fraterna amicizia.
Questa pubblicazione vuole "fare memoria” di uno spirito autenticamente scout dal quale trarre insegnamento e ispirazione per stimolare tutti i Capi a sviluppare i loro “talenti” e tenere “in quota lo scautismo.
Ringrazio quanti hanno contribuito alla realizzazione dell’opera: Bruno Tessaris, Bruno Benvenuti ed il coro dei vecchi scouts di Treviso per la parte musicale e l’incisione della cassetta dei canti, Claudio Favaretto, Lino Bianchin, Stefano Longhi, Luciano Furlanetto e Fiorella Boscarato per le testimonianze e la raccolta del materiale e dei “ricordi”.
Naturalmente il grazie più grande va a Checco!
Nevio Saracco

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ALBERI ANIME

 

Il primo libro di poesie di Francesco. La prima edizione è stata realizzata nei mesi di novembre dicembre 1985 e la seconda nel settembre del 1992 a cura dell'Associazione culturale Teorema per i tipi delle Grafiche Crivellari di Treviso.

La presente terza edizione è stata stampata dalla Tipografia Piave di Belluno nel mese di luglio 2012.

L'introduzione è stata scritta da Ivo Prandin.

 

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MENDICAVAMO CANTI DI USIGNOLI

 

La dedica alla moglie Anna Maria del libro anticipa il significato e il senso delle poesie. Il titolo stesso è evocativo di tempi di particolare sensibilità affettuosa dello stare insieme di due persone innamorate; Anna Maria era ormai morta da cinque anni.

Sandro Zanotto intitolava la sua presentazione al libro Il canzoniere d'amore di Francesco Piazza e descrive la raccolta di poesie come un viaggio "entro l'anime dell'autore" come un continuo contrasto tra amore e morte.

 

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IL VENTO E LA ROCCIA

 

Anna Maria Feder Piazza era una donna del dubbio e aveva voce di profezia.
Attraversata dal dramma e protagonista di una straordinaria vicenda umana, è stata educatrice fuori degli schemi tradizionali. La volontà di farsi carico delle esigenze giovanili l'ha portata ad offrire risposte valide a chi voleva uno scautismo e una scuola liberi e coraggiosi.
Semplicemente ha imparato a scommettere sulla creatività degli altri.
Contro tutto e contro tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONE DEL LIBRO DI GIAN DOMENICO MAZZOCATO A CURA DI MARIO CUTULI - La Vita del Popolo 2 settembre 2007

 

A scuola di Anna Maria, un'educatrice “ribelle”

“Quella donna deteneva un segreto grande. Leggeva il misterioso respiro della storia, lo decifrava agli altri... Sapeva creare un ambiente, delimitare uno spazio, cogliere il senso del tempo...
Aveva un essere irrequieto, in ricerca e dunque simile a risorgiva perenne, una creatura viva...”
Si direbbe che Anna Maria Feder Piazza, sia tutta qui, in questo ritratto che di lei traccia Gian Domenico Mazzocato, in “Il vento e la roccia” (Ed. Paoline).
Ed invece no.
Questa educatrice “ribelle”, questa donna ferma nelle proprie convinzioni, tanto decisa nei suoi propositi quanto consapevolmente irrequieta nella sua ricerca, che “ha assimilato”, che “ha colto l'essenza”, che “sa dirsi a Dio usando parole di sintesi e di rivelazione”, questa donna “abituata ad abitare con se stessa” e “sempre disposta a un di un più”, sfugge ad una definitiva connotazione, ad un cliché predeterminato.
Come il “vento” non può essere circoscritta e contenuta, perché, proprio come il vento, scompagina e scuote, scompiglia e agita, modella e leviga.
Come il vento si arresta solo se contrapposta alla “roccia”, anche se non esaurisce la sua forza, in un continuo, inarrestabile e complementare contrasto e completarsi.
Se Anna Maria è il vento, Francesco, l'uomo della sua vita, è la roccia. Se lei è il dinamismo, lui la pacatezza. Se lei la fantasia, lui la stabilità. Poli che si richiamano, perché ogni metà ha bisogno dell'altra, non solo per avere un contrasto, ma anche per comprendere se stessa, perché l'una è tale in forza dell'altra, perché l'una, nella sua propria irripetibilità, vive dell'altra.
Come essere in ricerca, Anna Maria sa che la vita è accettazione dell'evento, ma anche consapevolezza che “può esserci un abisso tra l'ieri e l'oggi”, che “la vita è ricchezza, è vastità, è creazione che si rinnova a ogni nuova vita, è quello che di più vario esiste” e non può perciò risolversi in “un binario su cui far scorrere ordinatamente un treno”.
Come “donna del dubbio” - solo chi dubita ricerca - Anna Maria non ha verità da dispensare, perché per lei la verità si identifica con la ricerca stessa. E questa è sempre anelito di qualcuno, di qualcosa, di un senso sempre più pieno e mai totalmente conseguito della vita.
Da questa ricerca, nasce in lei l'amore per lo scautismo e il bisogno di trasmettere uno stile di vita improntato alla scoperta della gioia di dare, al tentativo di decifrare il mistero che si cela anche nelle piccole cose a partire dallo stesso ritmo naturale con cui ogni cosa diviene ed è, semplice e profondo allo stesso tempo, perché di esso il regista è Dio stesso.
E nasce anche l'esperienza della “stanzetta”, in quella casa di via Biscari, nella prima periferia di Treviso, dove si parla, ci si confronta, si ascolta, si condividono ideali, s'intrecciano speranze.
Da questa ricerca nasce la consapevolezza che “riempire le ore della nostra vita non significa vivere, perché “per vivere bisogna ancorare la nostra esistenza a qualcosa” perché “sognare è vuoto e troppo costoso per chi non è pazzo...”, ma soprattutto la determinazione a non lasciarsi prendere in contropiede dalla vita, come ama ripetere, quando nel 1981 scopre il male che pian piano la consuma.
Da questa ricerca, infine, nasce quella pedagogia sperimentata con le sue “guide”, ma anche con suoi alunni tra i banchi di scuola: insegnare senza forzare e imporre, incarnando così la perfetta figura di educatrice che fa della maieutica la strategia vincente del suo incontro con gli altri perché ognuno, con la personale, responsabile ricerca, diventi maestro di se stesso.
Non era facile leggere tra le pieghe della pur breve vita di Anna Maria, di questo vento che sollecita la coscienza e stimola l'intelligenza. Non era facile “comprendere” questa donna che vive sapendo di vivere, capace di “interiorizzare il deserto”, di “discendere dentro, per trovare punti di solidità della propria identità”. (Mario Cutuli)

 

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CUSSI' I SE CIAMAVA

 

Il libro, che si propone di mantenere la memoria di vecchie tradizioni e culture contadine, è stato edito nel mese di luglio del 2002 con la fattiva collaborazione della Fondazione, la quale è stata beneficiaria dei proventi derivanti dalla vendita.
Le illustrazioni contenute nelle pagine interne e la stessa copertina sono opere del fratello Francesco.

DARIO DE BASTIANI EDITORE

 

 

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PRESENTAZIONE


Questo libro fornisce un sintetico quadro storico relativo alle pietre miliari che caratterizzano l’identità del popolo armeno e si concentra sulla tragedia del genocidio, che gli Armeni, cittadini dell’Impero ottomano, hanno subito durante la Prima Guerra Mondiale ad opera del governo dei Giovani Turchi.
Il genocidio, definito dal popolo armeno il “Grande Male”, è una pagina di storia ancora misconosciuta poiché per decenni su di essa è stato eretto, in ambito internazionale, un possente muro di silenzio, nel quale si sono aperte delle brecce solo in anni recenti.
Tutt’oggi permane il negazionismo da parte dei governanti della Turchia, nonostante un’ampia documentazione e testimonianze attestino la verità storica del genocidio. La bibliografia indicata alla fine del testo, può offrire al lettore spunti per ulteriori approfondimenti sulle tematiche trattate.
 
 
 

 

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