"ALBERI ANIME"  Mostra Acqueforti di Francesco Piazza - La Rinascente - Padova - 2018


Libro di cortesia: commenti e osservazioni

                                                        

"ALBERI ANIME" Mostra Acqueforti di Francesco Piazza dal 21 novembre al 2 dicembre 2018 - Galleria la Rinascente - Piazza Garibaldi, Padova.

Inaugurata a Padova, alla presenza di Chiara Gallani, Assessore all'Ambiente del Comune di Padova, la mostra di acqueforti di Francesco Piazza "Alberi Anime".

Molto apprezzata la presentazione di Nicolò Menniti-Ippolito che ha legato sapientemente l'opera poetica con quella grafica dell'artista.

La mostra è stata organizzata dal Comune di Padova e dalla Fondazione Feder Piazza onlus in occasione della Giornata Nazionale degli Alberi.

 

Prolusione


“Come albero piantato lungo l’acqua”, scrive Francesco Piazza nella didascalia di una sua acquaforte del 1981, che diventò poi anche la copertina di Alberi anime, il suo libro di poesie. Una corrispondenza, quella tra uomo e albero, non inusuale in quella tradizione naturalista in senso lato, cui a pieno titolo appartiene l’artista trevigiano. Con arditezza che voleva scientifica ma suona oggi esistenziale, Goethe lo raccontava così questo parallelismo: “La pianta trova il suo coronamento nella rigidezza e durata dell’albero e l’animale si nobilita raggiungendo il massimo di libertà e mobilità nell’uomo”. I vertici, si potrebbe dire, dei due mondi della natura, che non a caso nelle opere di Piazza sono sempre intrecciati, perché si appartengono reciprocamente. In una poesia di Alberi anime, che si intitola La modella, l’improvviso riemergere di una subitanea fascinazione fa diventare la donna via via abete, frassino flessuoso, larice, ligustro, a dire non di un’identificazione ma di una reciprocità, di una consonanza che affratella uomini e alberi.

Il poeta Paolo Ruffilli, parlando delle acqueforti di Piazza, notava giustamente che sono dominate dalla assenza e dal silenzio. L’assenza è quella dell’uomo, che appare in queste immagini solo attraverso i suoi manufatti; il silenzio è quello di una natura che per un attimo sembra disabitata, immobilizzata nella durezza del metallo, eppure estremamente viva. Perché è nella vita di quegli alberi, di quel sottobosco di luci e ombre, in quelle foglie al vento mentre fluiscono le stagioni che si ritrova la presenza umana. Ed in questo Piazza si ricollega ad una tradizione che attraversa tutta la cultura veneta, con quel suo interrogare il rapporto tra natura e civiltà che si ritrova tanto nelle immagini quanto nelle parole. Scriveva Mario Rigoni Stern in Arboreto selvatico che “con il popolo degli alberi i nostri antenati avevano un rapporto più diretto ma anche più conoscitivo e rispettoso in forza di religione e per sensibilità”. Proprio di questo rapporto parlano le acqueforti di Piazza, che sembrano voler riallineare l’uomo contemporaneo con questo rapporto perché –usando ancora le parole di Rigoni Stern - “Quando gli uomini vivevano dentro la natura, gli alberi erano un tramite di comunicazione della terra con il cielo e del cielo con la terra.”

In questo senso Piazza potrebbe essere considerato un anticipatore di quella che qualcuno chiama dendrosofia, ma più in generale è la passione per gli alberi e le foreste, alla ricerca di “connessioni spirituali” di cui sono in qualche modo generatori. Potrebbe sembrare “new age”, ma è invece qualcosa di molto più antico, o almeno lo è per Piazza. Roger Deakin, uno dei grandi viaggiatori nel mondo delle foreste, scrive in Nel cuore della foresta che “gli alberi fermano il tempo”. Trasmettono insomma un senso della eternità, della permanenza, che contrasta con quel dileguare della vita che l’opera umana sembra volere fissare in forme che però inevitabilmente decadono. Un altro grande appassionato di alberi, Anton Pavlovič Čechov, alla vigilia della propria morte, chiude la sua ultima commedia, Il giardino dei ciliegi, con questa didascalia “Si sente un suono lontano. Sembra venire dal cielo, il suono di una corda di violino che si spezza, un suono triste, morente. Silenzio, lontano si sente solo la scure che si abbatte sui ciliegi”. Ma ancor meglio in Zio Vanja fa dire ad un suo alter ego “quando io passo accanto ai boschi dei contadini che ho salvato dall'abbattimento, oppure quando sento stormire una giovane foresta piantata con le mie mani, mi convinco che il clima è un poco in mio potere, e che se tra mille anni l'uomo sarà felice, una parte di responsabilità ce l'avrò io”. Questo senso della durata, della eternità degli alberi, la sensazione che la fine del giardino dei ciliegi, la fine delle foreste coinciderebbe inevitabilmente con la fine dell’umanità stessa è molto presente nelle immagini di Piazza. Come anche la vitalità di una natura che rigenera sé stessa e che l’uomo non può non imitare e invidiare. Scrive Enzo Bianchi, il fondatore della Comunità di Bose, che “L’albero vive un’alleanza tra vita e morte differente dalla nostra: è possibile, per esempio, che la morte colpisca una o più fronde, persino un insieme di rami, senza che muoia l’intera pianta”. Imparare dagli alberi allora: “S’è rinnovato il carpino / verdeggia ancora l’acero, gonfio-gemmato è il frassino / questa è la vita!” – scrive Francesco Piazza in una sua poesia. Le ferite della vita, il dolore della perdita, il trascolorare delle amicizie, delle illusioni, delle speranze, trova un contraltare in quella stabilità della natura che l’albero, più di ogni altra pianta rappresenta. Ma non solo questo, c’è anche la bellezza che per Piazza si ammanta di divino, ma suona molto simile a quella che un grande nichilista, il filosofo padovano Andrea Emo così nei suoi diari sintetizzava: L’albero che non sente, non vede non sa né conosce, che non parla se non con i venti, è però compiuta bellezza, un’armonia, una simmetria. Un equilibrio di forme, una suprema innocenza, una mancanza di colpa”. E ancora: “L’albero conosce perché crea”. Ecco: guardare le immagini di Piazza, anche quelle più spoglie, autunnali -che sono forse le più frequenti- trasmette questo senso di una bellezza viva, intensa, anche se minacciata dal tempo, dall’uomo, dalla possibilità che tutto sparisca. Che spariscano gli alberi, che abdichino al loro rifiorire, perché allora sì che anche l’uomo, che in queste immagini non c’è, ma è ugualmente presenza, diventerebbe solamente silenzio. 

Nicolò Menniti-Ippolito